«Crac Lehman Cinque anni dopo rifarei quasi tutto»

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Sono passate solo poche ore da quando Bank of America ha accettato di comprare Merrill Lynch, impedendone il collasso. E meno di 48 ore dopo il gigante assicurativo Aig sarà salvato con un prestito d’emergenza della Federal Reserve da 85 miliardi di dollari. «Da allora mi sono guardato dentro, mentre osservavo l’economia annaspare e i nostri cittadini lottare con debiti non pagati, case pignorate, risparmi devastati, posti di lavoro persi, restando senza fiducia: in se stessi e nel nostro sistema. Ma sebbene le nostre azioni siano state meno popolari della tortura, secondo alcuni sondaggi d’opinione del gennaio 2009, resto convinto che nel complesso abbiamo fatto le cose giuste e che le nostre scelte resisteranno alla prova del tempo», sostiene Paulson, oggi alla guida dell’Istituto, presso l’Università di Chicago, che porta il suo nome. «Se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto, probabilmente la disoccupazione invece che al 10% nell’ottobre del 2009 sarebbe salita al 25%», afferma l’ex ministro del Tesoro dell’amministrazione Bush, parlando all’Economic Club di New York, dove la settimana scorsa ha presentato l’edizione, rivista 5 anni dopo la crisi, del suo libro autobiografico «On the Brink», in italiano «Sull’orlo» (sottinteso del baratro).
Ma perché Lehman è stata lasciata cadere? Anche con il senno di poi Paulson ripete: «Continuo a credere che abbiamo fatto l’unica cosa che potevamo fare legalmente. Non avevamo l’autorità per salvarla o prenderne il controllo e smontarne le posizioni in modo ordinato». Però Lehman «non fu la causa ma un sintomo della crisi finanziaria, una di una serie di calamità spuntate come funghi», incastrata tra la presa di controllo delle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac e il salvataggio di Aig.
«Mettere in amministrazione controllata Fannie e Freddie e sostenere tutti i loro debiti e le obbligazioni garantite da mutui è stato il passo più importante preso per arginare la crisi finanziaria», afferma Paulson. «Le due agenzie governative erano in modo schiacciante il player principale sul mercato immobiliare, che era nel vortice della crisi. Con 5,4 trilioni di dollari di debiti e titoli garantiti da mutui, da soli questi due istituti erano 9 volte più grandi di Lehman Brothers. Costituivano una parte centrale del nostro sistema finanziario, e il loro fallimento avrebbe inferto un colpo devastante all’economia Usa».
E’ stato un lavoro di squadra, ricorda Paulson: «Ben Bernanke, Tim Geithner, allora presidente della Federal Reserve di New York, e io siamo stati veri partner, uniti dalla convinzione che l’inazione sarebbe stata il più grosso errore che avemmo potuto commettere».
Cinque anni dopo l’America è ripartita. «L’economia va molto meglio. I mercati funzionano normalmente e il sistema finanziario Usa è il migliore del mondo per dimensioni, profondità, trasparenza ed efficienza. E’ una forza fondamentale e un vantaggio competitivo per gli stati Uniti», dice. E però quando gli viene chiesto se l’America corre il pericolo di una nuova crisi finanziaria, la risposta che dà è affermativa. «Nella storia recente, tendenzialmente abbiamo avuto una crisi ogni 8 anni o giù di lì. Storicamente sono state gestibili; questa crisi invece ci ha condotto a una recessione dolorosa e profonda. La chiave è evitare enormi disagi come nel 2008 o nella Grande Depressione».
Dove bisognerebbe intervenire? «Non abbiamo fatto nessun progresso per riformare le agenzie come Fannie e Freddie, che ancora controllano il mercato dei mutui; non abbiamo corretto il mercato dello shadow banking; e stiamo ancora discutendo sul dilemma too big to fail ». Secondo l’ex ceo di Goldman Sachs questo principio è «inaccettabile e deve finire». Il modo migliore sarebbe quello di «ridurre i vantaggi di una banca ad essere grande con obblighi di capitale e di liquidità più stringenti. Regole severe, comprese la possibilità di limitare le dimensioni o forzare i disinvestimenti se una banca non è in grado di gestire i suoi rischi, potrebbero rendere il fallimento meno probabile». Sapendo, però, che «la complessità e l’interconnessione contano quanto le dimensioni quando si valutano i rischi».
Giuliana Ferraino


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