MARGHERA Verità giudiziaria e verità storica sul petrolchimico

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(da Il manifesto, 21 maggio 2006)

L’eredità petrolchimica

Sentenze A Marghera la Cassazione ha messo la parola fine al processo per i veleni, confermando che quelle morti furono degli omicidi.
A Priolo,risarcimenti «preventivi» vorrebbero chiudere una storia analoga prima ancora che cominci un processo

Manuela Cartosio

Felice Casson non è tipo da indulgere agli ozi romani. Insediatosi a Palazzo Madama il 28 aprile, il neosenatore Felice Casson (eletto come indipendente nelle liste Ds) ha subito depositato un disegno di legge. Sull’amianto, una delle tante sostante mortifere di cui si è occupato da magistrato. Casson è stato il pubblico ministero nel maxi processo contro il petrolchimico di Porto Marghera dove a far strage di operai è stato il cvm, il cloruro di vinile monomero. Venerdì la Cassazione ha chiuso definitivamente il processo, confermando la sentenza d’appello pronunciata nel dicembre 2004 nell’aula bunker di Mestre: cinque ex dirigenti Montendison condannati a un anno e mezzo di carcere per la morte dell’operaio Tullio Faggin, deceduto nel 1999 per angiosarcoma al fegato, «tipico» tumore causato dal cvm. L’ultimo ad andarsene di una vasta schiera (la lista presentata da Casson conteggiava 157 decessi), l’unico omicidio colposo non «caduto in prescrizione».
Nonostante le tante e vaste prescrizioni, la sentenza d’appello aveva corretto il «tutti assolti» del primo grado che – era il 2 novembre 2001 – aveva sbigottito e fatto piangere i parenti delle vittime. Tutti morti perché fumavano o bevevano qualche ombreta? «Di qualcosa bisogna pur morire», commentò il difensore di uno dei 28 imputati, il gotha della chimica italiana al gran completo. Frase che non si dimentica. La sentenza d’appello, trovando un punto di equilibrio tra garantismo e giustizia sostanziale, ha risarcito il bisogno di giustizia di un’intera comunità e riconosciuto la fondatezza dell’impianto accusatorio sostenuto da Casson.
Il timbro definitivo della Cassazione, dichiara l’ex magistrato, è estremamente importante. La Suprema corte «mette al primo posto la salute, applicando la Carta costituzionale». Banale? Mica tanto, replica il neosenatore. «Significa che quando si verificano gravi casi di danno alla salute dei lavoratori è giusto e corretto procedere anche con un processo penale». Certo, i processi si fanno sempre in ritardo, i tumori hanno latenze di decenni, scattano le prescrizioni. Di questo Casson si rammarica ma, aggiunge, il tempo che passa non può essere un alibi. «I processi sono lunghi e complicati, però bisogna farli». In sede penale, ribadisce. La sottolineatura rinvia a uno scontro tra «scuole di pensiero» giuridico emerso in dibattimento nell’aula bunker di Mestre. Una, rappresentata dal professor Federico Stella, patrono dell’Enichem: «Non si potrà mai accertare al di là di ogni ragionevole dubbio il nesso di causalità tra la morte di un operaio del petrolchimico e il cvm. Questo processo andava fatto in sede civile, dove basta il probabile». L’altra, interpretata dai difensori di parte civile e, ovviamente, dal pm Casson. Che liquida il contenzioso in modo spiccio: «Se si dà retta al professor Stella, si esce dalla Costituzione italiana. La salute divente merce. Un’azienda procura danni alle persone o all’ambiente? Paga e tutto finisce lì. Andrà bene per le imprese, non per la giustizia».
Per dirla tutta, la sentenza della Cassazione chiude a favore di Casson anche un altro contenzioso, quello con i giudici di primo grado. Garantisti sinceri e non pelosi, corre l’obbligo di ricordare, uno pure lettore del manifesto. Avevano fatto derivare la loro assoluzione plenaria da una data feticcio, l’anno 1973. Prima d’allora, avevano argomentato, non c’erano le leggi e non si sapeva quanto fosse nocivo il cvm. Dopo, i padroni del Petrolchimico hanno grosso modo rispettato le normative. Confermano le condanne, afferma Casson, la Cassazione dice che le leggi sulla salubrità dell’aria, dell’acqua e dei luoghi di lavoro c’erano fin dagli anni ’50. «E valevano per le imprese, per le amministrazioni pubbliche e per i magistrati». Anche questi ultimi hanno girato la testa dall’altra parte. L’esposto di Gabriele Bortolozzo, l’operaio del Petrolchimico che per primo documentò l’epidemia di tumori tra i colleghi, da cui ha preso avvio l’inchiesta di Casson è del 1994. «Ma non era il primo», precisa l’ex pm. Se qualche magistrato non avesse messo nel cassetto le denunce di Bortolozzo, le prescrizioni non sarebbero scattate».
La sentenza della Cassazione arriva alla vigilia di un anomalo referendum postale, promosso dall’Assemblea permanente contro il rischio chimico. Un rischio insito nel ciclo del clorosoda e del deposito di fosgene, dice Roberto Trevisan, portavoce dell’assemble. Più elevato, parodossalmente, in un petrolchimo che produce meno di un tempo. In una situazione incerta, le imprese non investono un euro in sicurezza e in manutenzione. A difendere ostinatamente il petrolchimico restano solo i sindacati dei chimici e i lavoratori. Ormai ridotti a 3 mila.

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L’eredità petrolchimica / 2

Massimo Giannetti
Palermo
E’ la prima volta che accade, ma non è un bel primato. Di certo, al di là del presunto gesto «volontaristico», come hanno sostenuto vertici dell’Enichem, il risarcimento per i danni provocati dal petrolchimico alla salute degli abitanti di Priolo è una evidente ammissione di colpa. Undici milioni di euro: è questo il prezzo «spontaneamente» pagato dal colosso della chimica italiana ad un gruppo di famiglie del paese siciliano che hanno avuto figli malformati o hanno dovuto fare ricorso all’aborto dopo l’accertamento delle malformazioni al feto.
Sono centouno i beneficiari di questa sorta di bonus riparatore, ma l’Eni, pur attribuendosene di fatto le colpe, ufficialmente nega qualsiasi nesso di causalità tra l’inquinamento prodotto dal suo impianto di clorosoda e le gravi malattie riscontrate ai neonati.
Il risarcimento, che si riferisce a malformazioni accertate nei primi anni Novanta ma non oggetto di processi, sarebbe dunque un atto di generosità gratuito. In realtà sarebbe strettamente legato a una delle inchieste in corso sull’inquinamento e che vedono i vertici dell’Eni di Priolo accusati di «associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti pericolosi contenenti mercurio». L’inchiesta, che nel gennaio del 2003 fece scattare le manette per una quindicina di dirigenti della multinazionale, venne definita con queste parole dal capo della procura di Siracusa, Roberto Campisi: «Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emerso il disprezzo per il valore dell’ambiente e della stessa vita umana». In pratica, anziché smaltire le sostanze tossiche in apposite discariche come prescrive la legge, i responsabili del petrolchimico per risparmiare svariati milioni di euro miscelavano i residui delle lavorazioni al mercurio con altri liquami e li gettavano in mare, nei tombini oppure li sotterravano. Il mercurio, utilizzato nell’impianto di clorosoda Eni, è la sostanza altamente pericolosa oggi oggetto dei risarcimenti. Il sistema di smaltimento fino a tre anni fa era lo stesso degli anni ’90: i rifiuti nocivi venivano riversati in mare e attraverso il mare venivano assorbiti dai pesci e dai pesci finivano nella catena alimentare.
Altro che «gesto spontaneo». In realtà è come mettere le mani avanti prima delle sentenze dei giudici. Lo stesso procuratore Campisi, che l’altro giorno ha reso pubblica la «spontanea decisione dell’Eni», ha sottolineato che i suoi «dirigenti apicali hanno fino ad ora tenuto una condotta di ampia e leale collaborazione con la procura tramite i loro consulenti».
I risarcimenti erogati alle vittime del mercurio oscillano tra un minimo di 15-20 mila euro per le malformazioni più lievi fino a un massimo di oltre un milione di euro per i casi più gravi. «Per quantificare gli importi – ha spiegato ancora il procuratore – la società si è rifatta alle tabelle utilizzate in sede processuale: ciascun risarcimento formalizzato è pari a quello che sarebbe stato determinato nel caso in cui fosse stati avviato un procedimento giudiziario e la società fosse stata condannata al risarcimento».
I centouno genitori risarciti sono soltanto una parte delle famiglie che nel cosiddetto «triangolo della morte», ovvero Priolo, Augusta e Melilli – dove sorge il più grande polo industriale d’Europa, figli nati con malformazioni congenite. Secondo un indagine sanitaria di qualche anno sarebbero oltre mille i bambini vittime dell’industria. Una percentuale quattro volte superiore alla media nazionale. E’ prevedibile, come hanno ammesso gli stessi inquirenti siracusani, che nei prossimi giorni anche loro potrebbero cominciare a chiedere danni.
A Priolo, Mellili e Augusta l’enorme concentrazione di fabbriche chimiche e petrolchimiche, molto spesso vecchie e insicure, ha causato negli anni anche la morte di parecchi operai. Secondo un’indagine di Legambiente sarebbero stati decine i lavoratori uccisi dalle esalazioni tossiche e dagli incidenti negli impianti. Molti degli incidenti non sono però stati mai denunciati. Una recente indagine epidemiologica, una delle pochissime effettuate dall’Oms dopo decenni si complici silenzi istituzionali, ha accertato inoltre un altissimo tasso di morti di cancro, che a Priolo è pari al 33 per cento dei decessi.
Ma i guai per questo una volta bellissimo lembo di Sicilia distrutto dal mito della chimica – tra l’altro impiantato su un’area altamente sismica e sede di basi militari – non finiscono qui. Come se non bastasse Totò Cuffaro ha individuato proprio nel territorio di Augusta il sito per uno dei tre megainceneritori previsti dal piano dei rifiuti regionale. Contro questa decisione proprio ieri sera nella cittadina si è tenuta l’ennesima manifestazione di protesta.

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Quegli operai non erano fantasmi

Gianfranco Bettin

Dunque non erano fantasmi. Non lo erano gli operai di Porto Marghera morti per l’esposizione a cloruro di vinile monomero (cvm). E non lo erano i responsabili di questa grande tragedia sociale e ambientale, cioè i vertici delle industrie chimiche insediate sul bordo della laguna di Venezia. Il verdetto finale della Corte di Cassazione rende giustizia ai morti e agli ammalati, e alle loro famiglie. E rende giustizia a Gabriele Bortolozzo, l’operaio autodidatta del Petrolchimico che aveva raccolto per anni materiali e testimonianze sulla sorte dolorosa toccata a quasi tutti i suoi compagni di lavoro. Gabriele, scomparso nel 1995, aveva infine trovato in Felice Casson un pubblico ministero capace di ascoltarlo e di fare del suo materiale la base per una indagine vastissima sfociata nella sconfitta al processo di primo grado e poi nel vittorioso ricorso in appello, ora confermato in via definitiva.
«I miei compagni morti non sono / mai esistiti / sono svaniti nel nulla», aveva scritto desolatamente dopo la prima sentenza il poeta operaio Ferruccio Brugnaro. Ma aveva fieramente aggiunto: «Nessun padrone / nessun tribunale / potrà mai recingerci / di un così grande / infame silenzio». E così è stato. La lezione di Bortolozzo, e la sfida di Casson (cioè della magistratura che agisce davvero «in nome del popolo italiano»), hanno nutrito una più forte e ampia coscienza, che il processo e la discussione che lo ha accompagnato hanno contribuito a formare storicamente e culturalmente. Una coscienza che ha trovato nuovo alimento nello stillicidio di incidenti continuato a Marghera e soprattutto nel gravissimo incidente del 28 novembre 2002 alla Dow Chemical, che ha fatto correre il rischio di una catastrofe interessando impianti e depositi di fosgene. Marghera, infatti, è uno dei pochissimi posti al mondo in cui enormi quantità di questa sostanza micidiale sono ancora lavorate e stoccate a ridosso di un grande centro abitato, oltre che di antiche meraviglie come la laguna e il centro storico di Venezia. Da questa nuova spinta è nata nel 2002 l’Assemblea permanente dei cittadini contro il rischio chimico che, oltre a mille altre iniziative, ha di recente promosso un referendum comunale per chiedere la chiusura del ciclo del cloro (che occupa circa 500 addetti su 2500 dell’intero polo chimico). Il successo della raccolta di firme ha preoccupato il partito trasversale che difende lo status quo, cioè una chimica perdente che anno dopo anno chiude reparti e riduce gli addetti, mentre diventa sempre più insicura per gli incidenti e deleteria per le emissioni in acqua, aria e suolo.
Così, a partire da un parere espresso dal ministero degli interni, secondo il quale questo referendum, ancorché consultivo, non potrebbe tenersi perché la materia non sarebbe «di esclusiva competenza comunale», l’amministrazione ha sostituito il referendum con una consultazione tramite questionario che coinvolgerà nel prossimo mese di giugno l’intero corpo elettorale del Comune di Venezia, utilizzando il sistema del voto degli italiani all’estero (inviando cioè le schede a casa di tutti, con una busta pre-affrancata per la risposta da rispedire al Comune). Per la prima volta la città, sia pure in questa forma sperimentale, potrà così esprimersi su un problema che ne condiziona la vita da oltre mezzo secolo.
La magistratura, sia pure con ritardo (che ha provocato fin troppe prescrizioni), ha detto una parola definitiva sulle responsabilità del passato. Ora la città intera – con le istituzioni e con la politica – dovrà assumersi la responsabilità di decidere sul proprio futuro.

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