L’avanzata dei ribelli si ferma alle porte di Sirte: «Aspettiamo i raid Nato»

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NUFEILA (Libia) — Niente da fare. Da sole le brigate dei volontari della rivoluzione proprio non ce la fanno a battere i soldati di Gheddafi. «Attendiamo i raid della Nato. Sarkozy pensaci tu. Arriva presto, che così poi noi potremo avanzare» , dicevano ieri alcuni soldatini in erba sdraiati sotto un albero alla periferia del villaggetto di Nufeila. E’ la testa di ponte della loro grande avanzata verso Tripoli. Il massimo che sono riusciti a fare, al seguito dei Tornado e Mirage anglo-francesi, dall’inizio dell’offensiva una settimana fa. Circa 500 chilometri tutti a ovest negli ultimi quattro giorni. Se fosse tutta farina del loro sacco sarebbe un miracolo, un successo militare degno dei migliori strateghi. Ma non è così. E qui stanno le incognite che pesano sul futuro prossimo del sogno per una Libia libera e democratica. Ieri mattina alle quattro si è diffusa la notizia che fossero riusciti a penetrare le periferie di Sirte. In tutta la Cirenaica, da Tobruk a Bengasi, ci si è svegliati con le raffiche delle mitragliatrici che rimbombavano nelle strade. Lunghe sventagliate di gioia. Quattro ore dopo era ripreso l’afflusso di volontari, armi e cibo verso le posizioni avanzate. Meno corale, meno imponente di un mese fa, eppure una ventata di energia dopo le paure della settimana scorsa, quando Bengasi sembrava destinata a soccombere sotto il rullo compressore delle colonne pesanti di Gheddafi. Presso Sirte si trova il villaggio natale del Colonnello, nella regione risiedono le tribù a lui tradizionalmente più fedeli. Inutile insistere su cosa significherebbe la liberazione della città . Tanto importante che si sono già  diffuse le voci più fantasiose, alimentate da una propaganda che non esita a inventare notizie di sana pianta pur di tenere in vita l’entusiasmo della sommossa. «Gheddafi e la sua famiglia sono già  in fuga verso il Ciad. Sono scappati attraverso l’Algeria meridionale. Lo aiutano i suoi mercenari africani» , dicevano le sentinelle al primo posto di blocco uscendo da Bengasi. Ajdabiya, 160 chilometri più a ovest, mostra i segni dei raid Nato attorno ai quartieri orientali e occidentali. Carri armati sventrati, camion porta munizioni ridotti in briciole, jeep e artiglierie leggere abbandonati. Ieri mattina vi stavano rientrando le prime famiglie fuggite nei giorni scorsi. Tutto sommato le distruzioni sono limitate a poche strade maggiori. I tecnici inviati dal governo provvisorio di Bengasi stavano cercando di rimettere in funzione le linee elettriche. Proseguendo oltre si fa via via più grave il problema della mancanza di benzina. Assurdo: nel Paese produttore di greggio per eccellenza, lo «scatolone di sabbia» che galleggia sul petrolio, occorre restare in coda ore e ore sotto il sole per arrivare finalmente al proprio turno e — con bottigliette di plastica tagliate in due alla bell’e meglio — raccogliere la benzina dal fondo della cisterna ormai semivuota dei pochi distributori ancora aperti. Non costa nulla. Nessuno chiede un dinaro. Qualche giovane volontario con inverosimili casacche militari cerca di fare un po’ d’ordine tra la folla. Assurdo anche perché 80 chilometri dopo Ajdabiya c’è Brega e 160 più avanti Ras Lanuf, i due poli petroliferi più importanti della Libia centro-orientale. Sui lunghi, interminabili rettilinei nel deserto non c’è quasi segno di guerra. Solo ogni tanto una carcassa di cingolato annerita. E attorno immondizia e sacchetti di plastica che il vento va a impastare sui cespugli radi. Le ferite delle bombe tornano a farsi vedere alle entrate delle città . Le raffinerie appaiono però intatte. Tre settimane fa le artiglierie di Gheddafi avevano incendiato alcuni grandi depositi di carburante. Ma le nubi di fumo nero si sono esaurite da un pezzo. Ras Lanuf è più o meno come l’avevamo abbandonata in fretta e furia di fronte all’avanzare delle truppe di Gheddafi. Le abitazioni colpite dalle bombe presso l’ospedale, le devastazioni causate dalle cannonate sparate dal mare, l’hotel Fadeel saccheggiato dai militanti della rivoluzione in ritirata disordinata. Un medico di Bengasi, Othman Fituri, venuto volontario a Ras Lanuf, racconta che nelle ultime 48 ore sono arrivati 5 morti e 6 feriti. «Tutto sommato non ci sono troppe vittime. Si tratta di scaramucce armate, più che di vere battaglie» , commenta. Più avanti però la situazione si fa molto più tesa. Ricorda i momenti difficili del conflitto. In lontananza all’orizzonte, dopo il villaggio di Ben Jawad, si vedono colonne di fumo nero, la terra trema per gli scoppi. «Ci stiamo mettendo tempo a sloggiare i cani agli ordini di Gheddafi. Ma cosa possiamo farci? Mica siamo soldati di professione. Abbiamo di fronte un regime durato 42 anni! E il nostro esercito non esiste. Gheddafi aveva paura dei golpe, così lo aveva reso inefficiente» , confida uno dei pochi ufficiali trovati sulla strada, Yussef Awad, 54 anni. Ancora una quarantina di chilometri e si arriva a Nufeila. L’avanzata termina qui, mancano ancora 130 chilometri a Sirte. Ma la strada è ingolfata di mezzi con a bordo giovani armati che non sanno bene che fare: avanzare o tornare indietro? «Non abbiamo ordini precisi. Facciamo ciò che crediamo. Ci guida il nostro cuore, Allah è con noi» , dicono a un bivacco. Non serve molto per trovare la conferma agli incubi più ossessivi dei dirigenti politici della rivoluzione a Bengasi che, nelle interviste con le televisioni straniere, si proclamano pronti a processare il Colonnello in Libia «dopo la vittoria» , ma in realtà  sanno anche che l’esercito rivoluzionario non è ancora in grado di condurre una battaglia, la sua organizzazione quasi nulla. E il ventilato «nuovo coordinamento» tra giovani volontari e soldati di professione è una grande bolla di sapone. Ora stanno sdraiati e attendono i blitz Nato. Raccontano che una colonna corazzata di Gheddafi è appostata a Wadi Ahmar, una ventina di chilometri più avanti. Dalle abitazioni di Nufeila sparano sui gipponi dei rivoluzionari. Si odono le raffiche di cannoni e mitragliatrici pesanti. Qualcuno confida senza troppa convinzione che però «i nostri soldati sono davvero a Sirte» . Nessuno mostra di dargli retta. Sta diventando scuro e occorre trovare un luogo per la notte. «Qui i filo-Gheddafi si muovono anche nel buio» , dice un altro, a sottolineare il nuovo problema che si apre superando il confine di Nufeila: qui il conflitto si fa sempre più guerra civile, qui corre l’antico confine tra Libia orientale e occidentale, qui vivono le tribù più legate al Colonnello. Come farà  la Nato a compiere i suoi raid? Un conto è colpire colonne di blindati nel deserto, un altro rimanere coinvolti negli scontri tribali.


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