La rabbia di Bibi contro Barack “Ignora le promesse fatte da Bush”

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WASHINGTON – Centoventi minuti di drammatico confronto. Carte, mappe, analisi sul tavolino dello Studio Ovale non hanno spostato di un millimetro la posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu, la proposta del presidente Obama sulla pace con i palestinesi «è lontana dalla realtà ». Mai finora le relazioni fra Stati Uniti e Israele avevano toccato un punto così basso, ai limiti della rottura. Già  prima di salire sul volo di Stato per gli Stati Uniti, il volto di Netanyahu lasciava capire con grande evidenza che il suo umore era pessimo e si preparava allo scontro. Teso, con lo sguardo tirato, è salito a bordo del 747 che lo ha portato nella “tana” di quello che considera ormai quasi un suo nemico. Bibi, di solito allegro e ciarliero con i giornalisti che viaggiano con lui, questa volta ha passato tutto il tempo del volo discutendo con i suoi collaboratori più stretti e fidati, una lunga telefonata con l’ambasciatore israeliano a Washington, lo storico Michael Oren, per avere più dettagli su ciò che l’aspettava entrando alla Casa Bianca. Poi, un paio d’ore prima dell’atterraggio, si è concesso alla stampa nello stile informale che lo contraddistingue, ma le parole invece che essere improntate all’ironia sono state taglienti come lame perché le proposte di Obama sono esattamente ciò che non voleva sentire. 
I due leader avvertono di essere a un punto di svolta delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e anche nel loro rapporto personale. Non si sono mai capiti e i rapporti sono sempre stati tiepidi. Obama non crede che Netanyahu sia davvero pronto a fare concessioni per arrivare a un accordo di pace con i palestinesi. Il premier israeliano ha visto il discorso di Obama sul Medio Oriente come una mezza trappola, «questa America non conosce la realtà », come testimonia una furiosa telefonata con Hillary Clinton poco prima di salire a bordo dell’aereo appena finito di ascoltare il discorso di Obama di giovedì. 
Shock, stupore e amarezza. Così si potrebbe definire l’impatto delle parole di Obama sul premier israeliano, specie per quei passaggi dove il presidente americano sostiene la necessità  che Israele accetti di ritirarsi lungo le linee antecedenti la guerra del 1967, sia pure con correzioni di confine, nel contesto di accordi di pace per arrivare a due Stati su quella terra da 63 anni sempre sull’orlo di una nuova guerra. «Lo Stato palestinese non può nascere a spese di Israele», commentava durante il lungo volo, «il ritorno alle frontiere del 1967 lascerebbe gran parte della Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) fuori dalle frontiere di Israele». E poi ancora più secco: «Ci sono cose che non possiamo nascondere sotto il tappeto». 
All’origine dell’irritazione di Netanyahu ci sono non solo questioni di contenuto, ma anche di forma. Obama ha tenuto al buio fino all’ultimo l’alleato israeliano, né l’ambasciatore Michael Oren né il consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Amidror – che era Washington fino all’altro ieri – avevano anticipato a quanto pare a Netanyahu che la “tempesta” che stava arrivando. «La pace non si può fondare su illusioni», ha esclamato con evidente disappunto.
Di fatto il premier israeliano accusa Obama di ignorare le “promesse” fatte da George W Bush nel 2004; di minimizzare la gravità  dell’accordo di riconciliazione fra Al Fatah e Hamas e di ignorare la sua richiesta di mantenere – anche nel contesto di accordi di pace – una presenza militare sulle rive del Giordano. Israele non lo dice esplicitamente, ma il timore è che nel nuovo Medio Oriente anche il regime hashemita di re Abdallah possa subire scossoni come quello egiziano e che da un momento all’altro anche il “confine di pace” con la Giordania possa cessare di essere tale.
L’atmosfera che c’era ieri alla Casa Bianca era fredda come la colazione di lavoro che è seguita all’incontro. Ora Bibi Netanyahu spera di rifarsi con il discorso che terrà  lunedì ai delegati dell’Aipac, la potente lobby statunitense filo-israeliana. Poi martedì prenderà  la parola al Congresso. Lì spera di avere applausi scroscianti e che la maggioranza repubblicana – a cui senza mistero vanno le sue simpatie – possa riequilibrare i rapporti che con la Casa Bianca sono ormai su un piano inclinato. Ma intanto Netanyahu dovrà  “concedere” qualcosa a questa Amministrazione perché ha disperatamente bisogno che gli Usa proteggano Israele, non solo con il veto al Consiglio di sicurezza ma anche con pressioni diplomatiche sugli alleati europei perché respingano la dichiarazione di indipendenza che il presidente palestinese Abu Mazen si accinge a portare in settembre alle Nazioni Unite. Ma ieri l’elenco dei leader europei d’accordo con la linea scelta della Casa Bianca si allungava ogni ora, compresa la Germania della Merkel, da sempre il più fidato alleato di Israele nel Vecchio Continente. 
Ma non c’è dubbio che il primo ministro israeliano d’ora in poi tenterà  in ogni modo di impedire la rielezione di Obama facendo leva sulle grandi lobby ebraiche negli States. Netanyahu in cuor suo vedeva già  un repubblicano, magari l’amico Mitt Romney, alla Casa Bianca nel 2012 per allontanare il più possibile il momento delle “concessioni dolorose”. Peccato che l’uccisione di Osama Bin Laden, il nemico numero 1 dell’America, sarà  per Barak Obama una formidabile rampa di lancio per ottenere un secondo mandato.

 


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