Osama ucciso davanti alla figlia “Un colpo all’occhio, era disarmato”

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L’ultimo rifugio del Califfo del Terrore. Il compound di tre piani dove, nella notte tra domenica 1 maggio e lunedì 2, i commando del “NSWDG” (Navy Special warfare development group) non hanno lasciato in vita uno solo degli altri sette maschi adulti e armati che lo abitavano. Hamza, il figlio di Osama, quattro guerriglieri afgani di origine pashtun, Abu Ahmad al Kuwaiti, il “corriere” che ha inconsapevolmente portato i cacciatori nella tana che andavano cercando da dieci anni, e suo fratello. Chi era in quella casa ed è sopravvissuto, un giorno, forse, racconterà  quel che ha visto. Sono tre donne (una di loro, moglie di Osama, è rimasta ferita ad una gamba), perché la quarta è morta. I pachistani, che le trattengono da lunedì, dicono le restituiranno alle loro famiglie. Intanto, dunque, i fotogrammi cruciali di questo epilogo continuano ad arrivare da Washington. Dalla Casa Bianca, dal Pentagono, dalla Cia. Dove raccontano sia andata così. Con una clausola: «Siamo ancora di fronte a informazioni fresche che stiamo continuando a raccogliere ed elaborare». Martedì 27 aprile, Langley, Virginia, sede della Cia. «Le prove dicono che Osama è lì». In un ufficio senza finestre al settimo piano del quartier generale dell’Agenzia, il direttore Leon Panetta riunisce i 15 uomini del suo staff. La direzione antiterrorismo, i responsabili delle operazioni clandestine. Su un tavolo, le «evidenze di intelligence» raccolte in 9 mesi di lavoro. Centinaia di foto, scattate all’edificio di Abottabad, dai satelliti spia della “National Security Agency”. I transcript più significativi delle telefonate con la famiglia intercettate sulle utenze di Abu Ahmad al Kuwaiti, il “corriere” di Osama. L’uomo di cui per primi, nel 2007, hanno parlato, nel carcere di Guantanamo e nei “black holes”, le prigioni americane nascoste agli occhi del mondo, qaedisti come il saudita Maad al-Qahtani (il ventesimo dirottatore mancato dell’11 settembre) e il libico Abu Faraj-al Libi, già  numero tre dell’organizzazione. Le prove raccolte sull’identità  del corriere sono certe. A cominciare dal numero di targa e dai dati del registro automobilistico pachistano del suo minivan “Suzuki” bianco. Avvistato una prima volta nel luglio del 2010 nel traffico della periferia di Peshawar e da allora mai più perso di vista. Quel “Suzuki” ha portato la Cia ad Abottabad. E quel Suzuki, da agosto del 2010, non fa altro tragitto che la spola tra la casa bianca di tre piani intestata a due innocui fratelli originari del Waziristan, Arshad e Tariq Khan, e il vicino mercato. Talvolta le macchine diventano due. Il “Suzuki” e un fuoristrada “Pajero”. Ma le commissioni che sbrigano sono sempre le stesse. Acquistano cibo in grandi quantità . Carne fresca, confezioni familiari di “Pepsi” e “Coca Cola”, latte “Nestlé”, saponi e shampoo di marca. E’ vero – concede Panetta nella discussione con i suoi uomini – nessuno di questi indizi, da solo, ci dice che in quella casa ci sia Bin Laden. È vero, da quella casa senza telefono e connessione internet non è stato possibile cavare un solo indizio elettronico o sonoro. Ma che ci fanno due uomini in una casa di tre piani con cibo fresco ogni giorno per 10 persone? E con i saponi di marca? Perché i rifiuti della casa vengono bruciati nel cortile? Perché da quella casa non esce mai nessuno? Perché i vetri del terzo piano sono oscurati per impedire la vista dall’esterno? Perché, muri di cinta alti tre metri mezzo? Perché, di notte, i cortili interni sono illuminati da potentissimi fari? Il direttore scioglie la riunione con una sintesi. «L’Intelligence raccolta dimostra che esistono tra il 60 e l’80 per cento di possibilità  che quella casa sia il rifugio di Osama». Giovedì 28 aprile, Washington, Casa Bianca, west wing. Obama: «Non possiamo aspettare ancora». Panetta incontra il Presidente. La decisione va presa. Bisogna stabilire il “se” farlo, il “come” farlo, il “quando” farlo. Di quella conversazione Panetta ha un ricordo che riferisce a Time: «Dico al Presidente: “Ammetto che sono prove circostanziali quelle che abbiamo, ma quando le mettiamo tutte insieme…”. E lui risponde: “Se mi vuoi dire che questo comporta un nuovo scenario con due nuove opzioni, come colpire la casa con missili a distanza, ovvero aspettare di avere dell’altro, è una cosa. Ma credo che aspettare non serva. Abbiamo già  il massimo di intelligence che possiamo ottenere”». Si fa, dunque. Ma come? E’ ancora Panetta a ricordare le sue parole al Presidente: «Da soli. Senza i pachistani. Perché come abbiamo già  deciso in marzo, ogni sforzo congiunto con loro rischia di mettere a repentaglio l’operazione. Possono allertare gli obiettivi». Da soli e con un’operazione di commando, trasportati da elicotteri. Niente bombe da una tonnellata scaricate dai B52 (“Alla fine, avremmo in mano solo un cratere). Ma quando? Osama chiede una notte per pensare. Venerdì 29 aprile, Washington, Casa Bianca, west wing. «It’s a go». Di buon mattino, il Presidente ha deciso. «It’s a go», si va, comunica. Subito. Prima che i pachistani mangino la foglia. Prima di imbarcarsi sull’Air Force 1 che lo porta a Cape Canaveral (dove una foto lo ritrarrà  scendere dalla scaletta e consegnare un misterioso bigliettino ad un ufficiale dell’aviazione che attende sottobordo), consegna a mano il suo ordine presidenziale di operazioni. All’1 e 22 del pomeriggio, Panetta ordina all’ammiraglio William McRaven che può avere inizio l’ultima caccia. Nome in codice dell’operazione e del bersaglio, “Geronimo”. Notte 1 maggio, Abbotabad, Pakistan. Settantanove commando a bordo di 4 elicotteri Sea Hawk (due di retroguardia, nel caso l’operazione si complichi), decollati dalla base di Jalalabad (Afghanistan) raggiungono il bersaglio. Uno dei due velivoli di testa va in stallo e atterra nel cortile del compound. Il secondo, sbarca gli uomini all’esterno. Per circa mezz’ora non si smette di sparare. Ogni anfratto della casa viene ripulito. Ognuna delle sei stanze da letto riempita di piombo. A piano terra, muoiono Al-Kuwaiti, il corriere, e suo fratello. Al primo piano dell’edificio le altre quattro guardie del corpo, una donna e Hamza, il figlio di Osama. Che si nasconde al terzo. Una delle sue mogli, mentre i navy seal salgono le scale prova a fargli scudo con il corpo e viene ferita a una gamba. Il puntatore laser dell’arma del primo dei commando che rimontano la cima dell’edificio illumina il cranio della preda. Un colpo. E’ l’1 del mattino del 2 maggio. “Geronimo Ekia”, “Geronimo”, ucciso in azione, è la comunicazione per la Cia e la Casa Bianca. Una macchina digitale scatta le foto di quel volto esploso per metà . E il file jpeg trasmesso a Langley viene sottoposto a comparazione facciale. Il cadavere del Nemico numero 1 è caricato sul Sea hawk superstite. L’altro fatto saltare. L’edificio ripulito di computer e carte trovate nell’appartamento. Alle 11 del mattino del 2 , in un punto sconosciuto dell’Oceano indiano, la salma di Osama viene lasciata scivolare in mare dal ponte della portaerei Carl Vinson.


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