Tra Agnelli e quartieri operai Fassino in pole position nella sfida sottovoce di Torino

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TORINO – Vedi Piero Fassino, 192 centimetri per 65 chili, avvinghiato in una mazurka al Circolo anziani di Mirafiori a una madama tonda che pretende pure il casché e ti chiedi dove mai si scorgano le vestigia dell’azionismo, anzi del “gramsciazionismo” torinese, che agita le notti sudate di Giuliano Ferrara, antico capogruppo del Pci in Consiglio comunale nei primi anni Ottanta. Niente “Visi pallidi”, niente “Pazzi malinconici”, come li chiamò il qualunquista Guglielmo Giannini, né qui né alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove al fianco di Marella Agnelli il candidato sindaco incontra la borghesia cittadina: Gianluigi Gabetti, il notaio Antonio Maria Marocco, Roberto Testore. Soltanto Ferrara può far finta di credere che tentare di preservare quel che resta un sistema di valori civili insidiati dal berlusconismo agonizzante sia la riedizione del partito che non c’è, il “Partito di vipere”, come qualcuno lo chiamò, riesumato sessant’anni dopo da una pattuglia di intellettuali snob, ricchi e moralisti. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale e animatore di Libertà  e Giustizia, non chiede che di conservare l’identità  centocinquantennale, uno degli autentici valori aggiunti della Torino post-fordista che, elaborato il lutto della crisi manifatturiera, come lo definisce Fassino, si incammina sulla via di aspirante capitale della cultura, degli eventi e del turismo. Ma senza dimenticare il monito di Walter Mandelli che fu vicepresidente della Confindustria: l’importante è “fè i toc”, non abbandonare la manifattura, scongiurare la desertificazione industriale. Di azionismo torinese, Fassino ha solo la voglia di vincere e vincere subito, al primo turno, come si diceva ai tempi di quel gruppo di intellettuali che fece la Costituzione, ma che alle elezioni non vinse mai.

Vedi Michele Coppola, trentasettenne assessore regionale alla Cultura ricciuto e di bell’aspetto, di modi ed eloquio civilmente pacati, così insoliti nel suo schieramento, candidato sindaco dell’ultimo momento per il Pdl, e ti dici che da quelle parti non è tutto “populismo carismatico”, non è tutto rissa sgangherata, come vorrebbero il capo e i suoi pretoriani alla La Russa e Verdini. Oppure è la Torino della Curia, delle caserme, della borghesia e della classe operaia che tutta intera rifiuta i toni da osteria, perché la politica è una cosa seria e richiede rigore subalpino, anche se per origini della popolazione è la terza città  del sud dopo Napoli e Palermo. Non è vero – sostiene Gianni Vattimo – che se non sei antropologicamente come Berlusconi sei subito uno snob. Se non fosse per il ministro Michela Vittoria Brambilla, che – non si sa quanto gradita – lo accompagna alla Società  Canottieri Armida, il giovanotto apparirebbe come un’iconcina di sano moderatismo. Più che ai grandi disegni, votato alle piccole cose: i cimiteri per cani e gatti, i nonni vigili urbani. Anche senza la Brambilla bisticciano i suoi capi, pur promettendo di non mettersi “le dita negli occhi”. E il candidato educato ne fa le spese: “A Torino vincerà  Fassino”, lo gela Roberto Rosso, figliol prodigo azzurro, dopo aver pendolato verso Fini, e appena premiato con un sottosegretariato. Accusa la gestione del partito in Piemonte e l'”esuberante” Enzo Ghigo, ex presidente della Regione, da un decennio suo carissimo nemico. Il quale replica: “Forse Rosso non si ricorda di essere appena rientrato nel Pdl. Si occupi dell’Agricoltura e lasci perdere Torino, che non è di sua competenza”.
Vedi Alberto Musy, professore universitario poco più che quarantenne, candidato del Nuovo Polo centrista, e senti senza urla da salotto tv ricette non banali per abbattere il debito comunale, che ha toccato qualcosa come 3 miliardi e mezzo, con un costo d’interessi di 150 milioni l’anno. Sergio Chiamparino, che sull’attenti in Piazza Castello rende onore ai gonfaloni degli alpini con il cappello da artigliere da montagna, mentre a lui rende onore persino il presidente leghista della Regione Roberto Cota, che definisce Fassino “una corazzata”, ma il sindaco uscente “una corazzata con più appeal”, spiega che quel debito enorme non è uno spreco, ma un investimento sul futuro post-fordista della città . E’ come il mutuo di una famiglia risparmiatrice che compra casa. Persino Beppe Grillo, che candida Vittorio Bertola, si trattiene un po’ rispetto ai suoi comizi urlati e artisticamente allucinati: chiede un paio di consiglieri comunali solo per “disinfettare” la Sala Rossa del Comune.
Chi venga da Milano e da Napoli, dove infuriano faide sanguinose, ha come l’impressione di una campagna elettorale non solo in sottovoce subalpino, ma un po’ pallida, perché il vincitore è dato per scontato. Lui, il Grissino torinese che ha scelto come gadget un pacchetto di grissini “Gran Torino”, ha come ripreso vita negli ultimi tre mesi. Dalle cene al fianco della vedova dell’Avvocato, salta al Lingotto da Sergio Marchionne e John Elkann, agli incontri con i banchieri, i nuovi poteri forti della città , incarnati da Angelo Benessia e Fabrizio Palenzona. “Quando nel 1983 fui eletto segretario della Federazione del Pci di Torino – ci racconta – l’avvocato Agnelli mi invitò a pranzo a casa sua in collina e mi disse: ‘Fassino, volevo conoscerla meglio, perché in questa città  ci sono due poteri, io con la Fiat e lei con i miei lavoratori’. Erano i tempi della città -fabbrica, che ha funzionato per un secolo. Oggi, elaborato il lutto della crisi, la Fiat non è più il motore di tutto in una città  che è scesa da un milione e 200 mila a 900 mila abitanti, imboccando per salvarsi la via di una vocazione plurale. Manifattura sì, ma anche cultura, finanza, terziario avanzato, università , cinema, jazz, movida, turismo”. Una metamorfosi che va completata, ma attraverso una “terziarizzazione” che non deve essere “povera” per non indebolire ulteriormente l’economia in termini di Pil rispetto a Milano.
Il meglio di sé, più che nei saloni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, alla Crocetta o in collina, il sindaco annunciato lo dà  nel mercato popolare di piazza Bengasi, oltre il Lingotto, dove esibisce una superba conoscenza toponomastica della città  nel rispondere ai desiderata di una folla che chiede di mettere mano a Torino nord, il cui degrado è più evidente ora che il centro è tornato un salotto, e agli altri quartieri operai lasciati indietro. La città  borghese sfolgorante persino dopo l’invasione degli alpini e quella operaia chiusa in una barriera più resistente del muro di Berlino.
” Come anduma?”, ” Certo che la metropolitana la fuma”. A un popolo di torinesi con accento indelebile di Cerignola o di Castellamare, che chiede di imbellettare anche le sue periferie, di renderle più sicure e di creare lavoro per i suoi figli disoccupati ultratrentenni, consegna in torinese una campagna elettorale vecchio stile, che incuriosisce anche i neo-torinesi marocchini, moldavi, peruviani, romeni, egiziani, cinesi, nigeriani e di ogni altro continente che l’assessore Giovanni Maria Ferraris ha quantificato in 129.086. Una città  nella città .
“Memoria, il seme del futuro”: passati gli alpini, domani l’inesauribile memoria subalpina riparte con il tema del Salone del Libro. L’unica cosa di cui nell’ex capitale non si ha memoria è una competizione elettorale cittadina con 12 candidati sindaci, 37 liste elettorali e 1.500 aspiranti al Consiglio comunale. I sondaggisti, che con Fassino credevano di avere qui un lavoro facile facile, tremano.


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