Democristiani a pontida

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«E’ tutto rimandato all’autunno». Lo sospettavamo, e con noi i diecimila padani che sudano delusione sul sacro pratone del giuramento.
Una bella domenica sprecata ad aspettare la svolta che non c’è, il Bossi che non c’è più. Molti vengono a Pontida da vent’anni e ricordano le molte scampagnate gloriose, lo scintillante Bossi degli esordi, il Braveheart varesotto lanciato contro la partitocrazia, il tuonante drudo dei Novanta, il cavaliere dell’ordine della canottiera che andava a dettare legge nelle villone del Berluskaz. Ora è lì che parla come può, ma per capire i messaggi che manda a Berlusconi ci vuole l’interprete, il cremlinologo, l’aruspice celtico. Era stato Bossi a dichiarare la morte del politichese, dei riti romani della prima repubblica, con la forza ruvida della parola diretta. Ora perfino i suoi gestacci, il pollice verso o il medio alzato, la pernacchia, necessitano esegesi più controverse delle famigerate «convergenze parallele» di Moro. In ogni caso, più grottesche. «Sì, il pollice era giù, ma non contro Berlusconi».
Il popolo verde si sforza di applaudire la lista della spesa, di farsi piacere i ministeri in Brianza. Per carità , Equitalia la odiano tutti. La scuola di magistratura a Bergamo, capirai. La riduzione delle auto blu, già  sentita. Ma c’era bisogno per così poco di montare tutto ‘sto circo, le attese messianiche, le catene di pullman, i carmina burana e burina, perfino di convocare sul palco i «templari della Val Seriana», lasciando magari incustodito il Santo Graal, con tanti zingari in giro?
Bossi minaccia che se Berlusconi non gli approva l’agenda, compreso il taglio delle tasse e la fine della missione in Libia, in autunno salta per aria e la Lega va da sola. Ma se dovessimo prenderlo sul serio, allora salterà  tutto già  la prossima settimana, visto che in Parlamento la maggioranza sulla Libia e sullo spostamento dei ministeri non c’è, quanto ai sogni fiscali Tremonti ha già  risposto con un progetto di finanziaria da 40 miliardi. La verità  è che Bossi offre una proroga a Berlusconi per darne un’altra a se stesso. La base incalza, è stanca di promesse, imbufalita contro Berlusconi, sul quale si raccolgono insulti a piene mani. Comincia anche a essere stufa di Bossi il temporeggiatore. Quello che in otto anni di governo ha fatto votare qualsiasi porcheria, le peggiori leggi ad personam, e in cambio di che cosa? Un federalismo a parole, più tasse di prima, più burocrazia, le solite tre ore quotidiane di strazio per i pendolari, i comuni del Nord che non possono spendere i soldi e quelli come Catania e Palermo salvati dalla bancarotta a suon di aiuti di Stato Per non parlare dell’odiata Roma ladrona, che con la Lega al governo ha ottenuto più di quanto ricevesse dai governi Andreotti. Per non parlare del disastro di Malpensa, messa ora in ginocchio dall’abbandono di Lufthansa. Bossi infatti non ne parla, guai a nominare Malpensa, dove Berlusconi promette da tre anni di tenere un consiglio dei ministri e dove nel frattempo sono diventati a rischio migliaia di posti di lavoro. Altro che i due o trecento dei dipartimenti ministeriali a Villa Reale, da distribuire ad amici, parenti, figli ripetenti e fidanzate. E poi, che senso ha passare dall’abolizione delle province allo sdoppiamento dei ministeri?
Queste sono le ragioni concrete del malcontento della base leghista, all’origine del terremoto elettorale. Senza gli elettori (o ex?) della Lega non ci sarebbe stato il quorum ai referendum e nemmeno la vittoria di Pisapia a Milano. Non ci sarebbe stata la finta suspense che ci ha portato tutti a Pontida 2011. All’una passata il fiero popolo padano si è un po’ rotto le balle della lista della spesa e invoca «secessione, secessione». Altri s’aggrappano al prossimo uomo della provvidenza leghista: «Ma-ro-ni, Ma-ro-ni». Vedi mai che almeno lui, araldo dell’autonomia leghista, dica due parole in più contro il padrone di Arcore. E Maroni arriva a chiudere la giornata. Segno importante nella liturgia padana. Arringa la folla da bravo avvocato, strappa gli unici applausi entusiasti del pratone. «Maroni premier!» urlano in tanti alla fine, prima di arrotolare le bandiere e i mugugni. Una guardia padana coi baffoni a manubrio consola il compagno: «Comunque, il Berlusca al 2013 non ci arriva». L’altro guarda l’uomo che scende dal palco aiutato dai fedeli. «Gnanca lù». Nemmeno Braveheart.


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