Il Capo del partito del Nord si trasforma in sindacalista

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Stavolta ancora più difficile perché successiva alla doppia (e inattesa) sberla elettorale. Chi dentro il centrosinistra si aspettava che la Lega staccasse di botto la spina al governo Berlusconi si era illuso, l’unica alternativa strategica all’asse privilegiato con il Cavaliere è una nuova legge elettorale che dia al Carroccio più ampi margini di manovra. Per poterla contrattare in Parlamento con il Pd, senza subire contraccolpi interni, la Lega ha bisogno che il governo muoia per un incidente e non per una decisione politica presa in via Bellerio. Da qui la scelta di Bossi di sindacalizzarsi: in fondo il Senatur dal palco bergamasco ha trattato l’esecutivo come facevano i leader di Cgil-Cisl-Uil d’un tempo. Ha messo giù un pacchetto di richieste vincolanti e come i confederali minacciavano lo sciopero in caso di inadempimento, così il leader del Carroccio ha avvertito Berlusconi che gli ritirerà  il mandato. Pericolo scampato, dunque, per la stabilità  del governo? No, pericolo rimandato. Perché il pacchetto di richieste che i leghisti hanno messo giù riduce ancora di più i già  stretti margini di manovra dell’esecutivo. E mette oggettivamente in mora Giulio Tremonti. Non si può certo dire che sia definitivamente oscurato il rapporto tra la Lega e il superministro, ma non c’è più quella delega in bianco che gli era stata concessa in passato. «Caro Giulio, nelle tue leggi non puoi toccare i Comuni virtuosi, gli artigiani e le piccole imprese» ha detto Bossi e via via ha sciorinato come punti di dissenso con il suo amico professore la mancata riforma fiscale, il patto di stabilità  imposto ai sindaci e le ganasce fiscali di Equitalia. «Neppure la sinistra aveva osato sequestrare trattori e mucche degli agricoltori debitori» ha gridato il leader leghista, buttando così sulla scrivania di Tremonti addirittura il fantasma dell’odiato Vincenzo Visco. Anche la richiesta del trasferimento dei ministeri a Monza, al di là  del puro valore simbolico che alla fine avrà  il progetto, rappresenta comunque una grana per Berlusconi perché accentua le divisioni all’interno del Pdl e dà  nuova benzina all’azione polemica degli Alemanno, delle Polverini e dei Miccichè in cerca di riposizionamento e differenziazione. La sindacalizzazione di Bossi è dunque una tattica per mettere in difficoltà  Berlusconi, per strigliare Tremonti e dare insieme una sensazione di concretezza a un elettorato padano meno disposto del passato a vivere di sogni. Alle camicie verdi giunte a Pontida da tutte le regioni settentrionali il leader ha fatto capire che stavolta non avrebbe raccontato di lunghe traversate nel deserto come alla fine appare ai militanti il mitico federalismo, avrebbe parlato invece di interessi concreti ed immediati da tutelare al più presto. Bossi li ha elencati e la sorpresa è stata che ai Piccoli del manifatturiero, la pancia del Paese e il popolo eletto del leghismo, stavolta il Senatur ha messo davanti il mondo agricolo. Le mucche prima delle ciminiere. Faceva una certa impressione sul prato di Pontida vedere sventolare i vessilli degli allevatori, gli ultras delle quote latte. Bandiere ostentatamente bianche e non verdi, che testimoniano ormai di una forza di pressione interna al leghismo che ha dietro 5 mila allevatori ed è capace di spingere la Lega a chiedere di riaprire il contenzioso con Bruxelles. A rompersi il collo, insomma. Il sindacalismo di Bossi ha però un contraltare. Guadagna in concretezza, perde in visione. Dal palco di Pontida o nei discorsi dei leader padani non si sente parlare quasi mai di infrastrutture, di terziario, di export, i veri temi della questione settentrionale dopo la Grande Crisi. Il nordismo viene frammentato e ridotto alla difesa dell’esistente, diviene preda di micro lobby interne come quella del latte, è una maniera per arginare la perdita di consenso elettorale ma contiene anche una rinuncia pericolosa. Come se gli inventori del nordismo a un certo punto, affaticati dal lungo cammino, scambiassero la primogenitura per un piatto di lenticchie. È vero che Roberto Cota e Luca Zaia, i governatori che dovevano essere i nuovi gemelli del goal, non stanno funzionando come si sperava. È vero che con Roberto Formigoni in Lombardia i leghisti non toccano palla. Ma è abbastanza singolare che una forza politica che ha criticato sempre con ardore la spesa pubblica ministeriale si rivolga all’elettorato nordista proponendo il trasferimento di 4 ministeri come una via per aumentare l’occupazione in Brianza. E tutto ciò mentre la Candy elettrodomestici vuole delocalizzare in Cina e disinvestire da Santa Maria Hoè, in provincia di Lecco, lasciando a casa 200 dipendenti diretti e altrettanti dell’indotto. Nella Lombardia si perdono posti da operaio e la Lega propone scrivanie da usciere? Onestamente fa un po’ specie. Il rinvio della resa dei conti con Berlusconi non è stato l’unico di ieri. Poteva essere l’occasione di una sorta di investitura alla successione per Roberto Maroni ma non è andata così. Dentro la Lega in molti pensano che la formula più efficace per governare questa difficile transizione politica dovrebbe sintetizzarsi così: Bossi presidente e Maroni amministratore delegato. Pontida, però, in merito non ha detto una parola chiara. È vero che in mezzo al pratone ha stazionato sin dalle prime ore un lungo e ben confezionato striscione che candidava il ministro degli Interni addirittura a presidente del Consiglio, così come è altrettanto vero che l’unico successore possibile appare proprio Maroni. Bossi dal palco l’ha stuzzicato due volte, prima chiedendo a lui— vestito da ministro della Repubblica e non da militante leghista— di trasferire anche il dicastero del Viminale a Monza e poi quando gli ha ricordato l’opportunità  di dare un colpo alle cosche mafiose che hanno preso piede in Brianza. Ma anche nel caso della successione al vecchio leader e leone il tempo delle vere decisioni è solo procrastinato. E Maroni da Pontida esce nettamente in pole position.


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