Il porto che affonda

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GIOIA TAURO (RC). Una bomba ad orologeria. Pronta a deflagrare su un territorio già  devastato da ‘ndrangheta e disoccupazione. Il nuovo Ad di Mct-Gruppo Contship (la società  che gestisce il terminal), Domenico Bagalà , ha comunicato che dal 15 luglio Maersk non toccherà  più le banchine di Gioia Tauro, con una perdita di volume del 40% e la collocazione in mobilità  di 467 lavoratori. Una situazione drammatica per il più grande terminal di transhipment del Mediterraneo, tra i primi porti italiani per flusso di merci, che fino a quattro anni fa movimentava oltre tre milioni di container. Ma soprattutto il più grande polo produttivo calabrese che dà  lavoro a 1074 persone (oltre 2 mila se si considera l’indotto), che costituisce il 50% del Pil privato regionale. «Sarebbe una tragedia – esclama Carmelo Cozza, segretario regionale del Sul, il sindacato più rappresentativo tra i portuali gioiesi – e anche una beffa inaspettata visto che i volumi fino ad aprile erano in crescita e Maersk aveva chiesto ed ottenuto la riduzione delle tasse di ancoraggio». Ma la globalizzazione conosce solo la logica del profitto e nulla più. E il padrone non si fa scrupoli nel mettere in mezzo a una strada centinaia di operai. In un territorio dove chi non ha lavoro rischia di finire seriamente nelle braccia della criminalità . Valgono per tutte le accalorate parole di don Ciotti che nei giorni scorsi (con don Pino De Masi di Libera della Piana) ha voluto recarsi al porto per salutare i lavoratori in presidio: «Se c’è un antidoto che rende liberi dalle mafie questo è il lavoro, che rappresenta un valore di dignità  che dobbiamo tutelare».
Il governo sta a guardare e fa poco o niente. Il rituale stantio di tavoli tecnici e riunioni fiume ha partorito alla fine il classico topolino. Perché gli esuberi sono stati messi da Mct sul tavolo del governo e il ministro Matteoli ha potuto solo prenderne atto, «ma parlerò con Aponte (l’armatore sorrentino, presidente di Msc, ndr) per convincerlo ad aumentare i volumi». Chiacchiere, magari buone intenzioni, ma nulla più. Perchè Maersk fa tremendamente sul serio, «vuole vendere le quote azionarie del terminal per trasferirsi a La Spezia – sottolinea Cozza – e se lo facesse sarebbe l’ennesimo errore di gestione del terminalista che già  si è lasciato sfuggire Grand Alliance e Lloyd, trasferitesi a Cagliari. Ed è davvero paradossale che un hub come quello gioiese con 4 km di banchina, 19 gru, una grande estensione dei piazzali, con fondali profondi 18 metri, numeri che in Italia non ha nessuno, si trovi in tale crisi». La questione è come rilanciare lo scalo tenendo presente che le previsioni di traffico nel Mediterraneo sono in forte crescita. Occorre cioè trovare alternative a Maersk. Nella riunione romana dello scorso 22 giugno (aggiornata al 5 luglio) Mct non ha presentato alcun piano industriale limitandosi ad annunciare gli esuberi e a ripetere gli impegni sulla logistica, «come se questo settore – ribatte Pasquale La Rosa, della Cgil regionale, già  segretario generale del comprensorio – potesse svilupparsi da un giorno all’altro. È dal 1995 che noi chiediamo il rilancio della logistica integrata ma Mct ha sempre risposto picche ed ora la tira fuori in modo strumentale per nascondere il dato saliente della vicenda. Venendo meno Maersk si sta perdendo il 40% della movimentazione. L’unica compagnia che rimane è Msc di Aponte che però ha già  dirottato una linea su altri porti. Gioia rischia di questo passo un inesorabile declino».
L’oggetto dei desideri è la compagnia sorrentina. Anche il presidente della Regione, Peppe Scopelliti, ha in programma un incontro con Aponte. Che non fa mistero di voler acquisire un pacchetto di azioni del terminal: non più e non solo cliente, bensì cogestore dello scalo gioiese. E per aumentare i volumi di traffico sarebbe intenzionato a chiedere una banchina autonoma all’azionista di maggioranza Mct. «Una strada alternativa – continua La Rosa – sarebbe piuttosto quella di imporre a Mct di lasciare una o più banchine, vista la riduzione di traffico, ed emanare un bando europeo. Sarebbe un modo per aprire Gioia alla concorrenza, abbandonando un regime di monopolio che ha fatto solo danni».
La partita è nondimeno politica. Perchè in un governo a sovranità  leghista la posta in palio è il rafforzamento degli scali del nord e il ridimensionamento di quelli meridionali. Matteoli in questi mesi si è mosso lungo questa strada, ha stanziato 100 milioni per i porti di Genova, Livorno e Vado Ligure e le briciole a Taranto, Cagliari e Gioia. Per non parlare di Trieste su cui verte un megainvestimento di un miliardo da parte di Unicredit per far diventare l’hub giuliano (l’unico assieme a quello calabrese a vantare fondali marini di 18 metri) il più grande del Corridoio 5. I sindacati (Sul e Cgil su tutti) sono sul piede di guerra. Chiedono alla proprietà  di ritirare il piano degli esuberi e sono disposti a trattare solo sulla cassa integrazione a rotazione, ma niente cig “guidata” ossia mirata a punire i reprobi tacciati di assenteismo. «Occorre però un piano industriale che consolidi il transhipment – conclude La Rosa – e il governo deve fare la sua parte abbattendo le tasse di ancoraggio, riducendo i costi del carburante, iniziando la costruzione della centrale solare prevista nell’Apq. Per scalfire la concorrenza dei porti del nord Africa».
Gioia è, dunque, a un passo dal baratro. La sensazione è che Mct non bluffi e c’è aria di smobilitazione. «Non siamo più disponibili a restare in Calabria a perdere soldi» annunciava qualche settimana fa a Ravenna Claudia Battistello, plenipotenziaria della società  amburghese. «Se il tavolo non dà  le risposte che ci attendiamo – minaccia Cozza – la lotta salirà  di livello. Bloccheremo un’intera regione. I lavoratori finora li abbiamo tenuti fermi per senso di responsabilità . Ma se il piano non verrà  ritirato la protesta non conoscerà  limiti». E anche i 36 sindaci della Piana rompono gli indugi. Oggi hanno indetto una mobilitazione straordinaria, convocando sulla banchina del porto una grande assemblea con sindacati, politici e cittadinanza. In gioco c’è la stabilità  sociale e l’agibilità  democratica. Un sussulto d’orgoglio, uno scatto di dignità . Per un territorio da troppo tempo martoriato.

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L’ESPERTO DI TRASPORTI
«Il governo affossa lo scalo per favorire quelli del nord»

 Domenico Gattuso è docente di Ingegneria dei trasporti all’Università  Mediterranea di Reggio Calabria. Grande esperto di marittima, è da sempre al fianco dei movimenti contro le grandi opere.

Come si spiega la crisi di uno scalo dalle grandi potenzialità  come quello gioiese?
Il porto di Gioia Tauro è una delle realtà  più interessanti nel trasporto marittimo e nella logistica mondiale, la maggiore realtà  produttiva della Calabria. È dotato di infrastrutture e impianti ragguardevoli. Per lunghezza banchine, profondità  dei fondali, ampiezza di aree di stoccaggio, equipaggiamenti, Gioia Tauro è leader nel Mediterraneo. È uno scalo che subisce non solo la crisi dei mercati, ma anche il ciclico allarme di crisi. Le ultime hanno riguardato un vuoto operativo di 30 ore a gennaio e l’annuncio recente dell’abbandono dello scalo da parte di Maersk, primo operatore mondiale dello shipping containerizzato. Nulla faceva pensare al graduale disimpegno a favore di porti del Nordafrica come Port Said e Tangeri.
Ci sono anche responsabilità  istituzionali?
Certamente. La competizione internazionale nello shipping si gioca sul sostegno delle regioni e dei governi ai propri porti e alle reti di servizio intermodali. Nel tempo, tuttavia, gli investimenti e il sostegno alla portualità  hanno ristagnato e l’attenzione su Gioia è scemata. Allarmante è l’azione politico-finanziaria che punta a rafforzare alcuni grandi porti del nord (Genova e Trieste in particolare). Occorrerebbe una reazione delle istituzioni del Mezzogiorno.
La crisi di Gioia Tauro si innesta in un sistema di trasporti calabrese disastroso.
Il disastro è sotto gli occhi di tutti, dalla Salerno-Reggio alle statali 106 e 18, al trasporto ferroviario. Giusto la settimana scorsa hanno cessato di funzionare le Ferrovie Taurensi che servivano la Piana. Per mettere in sesto il trasporto pubblico regionale basterebbe un miliardo: esattamente un centesimo di quanto si spende per l’Alta velocità . Le Taurensi costano 160 milioni: un’inezia rispetto ai 10 miliardi preventivati per il Ponte. Un moderno treno regionale costa 5 milioni e ne servirebbero una decina in Calabria per ammodernare il settore. Cifre risibili dinanzi alla valanga di euro messi a bilancio per le grandi opere.
Il porto si avvia a un inesorabile declino o si può invertire la rotta?
Si deve passare rapidamente alla realizzazione delle opere previste. Occorre fare quello che da 15 anni aspettano tanti operatori di settore: attivare l’intermodalità  mare-ferrovia e far decollare il trasporto ferroviario. Il porto è collegato in modo efficiente e regolare con oltre 50 porti del Mediterraneo, ma non è ancora allacciato in modo serio all’Europa. Ma per tutti questi scopi si pone un problema di governance di alto profilo. Bisognerebbe superare una prassi che vede privilegiare nomine dirigenziali localistiche e clientelari, puntando su staff competenti e di caratura internazionale.


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Il suo atteggiamento censorio è fuori luogo e ci sono molte ragioni per sostenerlo.

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