Il cuore ecologico della crisi

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 Ingiustizia globale. Questo dieci anni fa denunciavamo a Genova quando parlavamo delle scelte dei G8, i principali rappresentanti delle politiche economiche imposte da Fmi, Bm e Omc. Allo stesso tempo proponevamo un altro mondo possibile, guidato dai principi della giustizia sociale ed ambientale. A dieci anni di distanza la violenza di Piazza Alimonda è stata estesa ad un intero pianeta. La crisi globale esplosa nel 2008 ci appare come un mostro inarrestabile che si nutre dei nostri diritti e distrugge futuro. In Italia il 14% della popolazione è diventata povera o indigente, mentre una famiglia su quattro non arriva a fine mese. Parole come austerità , privatizzazioni, debito e pareggio di bilancio tornano di grande attualità , senza che nessuno ci spieghi se a queste si accompagneranno miglioramenti delle nostre già  peggiorate condizioni. Scompaiono invece redistribuzione, lavoro, equità , giustizia e solidarietà . Prima affondano la Grecia, poi il Portogallo ed ora tocca a noi. Per incassare il consenso alle manovre, instillano un po’ di sano terrorismo e paura attraverso gli stessi ministri che hanno provocato la crisi. Ma la domanda di fondo è: riusciranno queste misure a migliorare le condizioni di chi oggi sta peggio, restituendo un po’ di fiducia nel futuro a generazioni private di molti diritti? La risposta è no. Perché quindi fidarci di chi ha provocato la crisi, ci si è arricchito ed oggi chiede al popolo ancora sacrifici?

Allo stesso tempo, nessuna forza politica di opposizione riesce a spiegarci quale modello di sviluppo ha in mente per uscire dalla crisi. Nessuno ha il coraggio di indicare un’uscita positiva che non si traduca nella perdita di diritti, lavoro e qualità  della vita. Perché? Perché parlare di beni comuni, res publica, reddito di cittadinanza, riconversione industriale, spaventa i mercati e rischia di farci incorrere in una declassazione di qualche agenzia di rating. Pura follia. Pensare che la politica abbia abdicato a questi meccanismi lascia sgomenti davanti alla portata della crisi. Ed allo stesso tempo il fatto che un’agenzia di rating e la finanza speculativa possano affossare centinaia d’anni di democrazia rappresentativa deve farci riflettere sui limiti dell’attuale architettura della nostra convivenza.
Paesi in via di sottosviluppo. Eccola qui la nuova categoria affacciarsi sulle scena internazionale, così come è stata definita dall’economista cileno Max Neef nel suo prossimo libro. Paesi come gli Stati Uniti dove l’1% della popolazione sta meglio da quando è iniziata la crisi nel 2008 e la restante parte sta invece sempre peggio. Prossimo paese in via di sottosviluppo l’Italia? La politica continua ad agire contro ogni evidenza. Sappiamo quello che dovremmo fare ma chi sta al potere non lo fa. Dall’ottobre del 2008, nonostante l’evidente fallimento del modello economico capitalista, stiamo assistendo ad un indurimento da parte dei nostri governanti, trasformatosi in queste settimane in una sorta di fondamentalismo che colpisce le fasce deboli e medie. Al punto da spacciare per miracolo un suicidio di massa. Abbiamo bisogno di economisti che comprendano di ecosistemi, termodinamica, biodiversità , così da analizzare le pieghe delle varie crisi ed apporre soluzioni credibili e desiderabili dalla maggioranza della popolazione. Invece gli economisti di opposizione e di governo sono dei perfetti ignoranti di tutto ciò, nella migliore delle ipotesi convinti che la crisi sia solo finanziaria ed economica. Ignorano il cuore della crisi, quella ecologica, e le sue devastanti conseguenze. Se questa appena arrivata è stata definita la tempesta perfetta, ci chiediamo se qualcuno ai piani alti stia almeno studiando l’impatto del disastro ecologico e della minaccia dei cambiamenti climatici. Gli attuali strateghi dell’economia hanno disumanizzato ogni processo, arrivando al punto di sostenere come la natura sia un sottosistema dell’economia. Noi invece crediamo che l’economia debba servire le persone, che lo sviluppo si riferisce agli esseri umani e non alle cose, che la crescita non sia sinonimo di sviluppo e che lo sviluppo non richieda necessariamente la crescita. E che non possa esistere un’economia in presenza di un ecosistema danneggiato. E qui arriviamo al centro della tempesta perfetta.
Nel silenzio dei media e della politica di palazzo, si sono già  tenuti due incontri preparatori della prossima e ultima Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici che si terrà  a Durban, in Sudafrica il prossimo fine novembre. Nelle negoziazioni intermedie in Tailandia e Germania le proposte portate avanti dai maggiori inquinatori al mondo sono sempre le stesse. Accettando questa relazione non sapremo fermare i cambiamenti climatici ed il mondo sarà  scaraventato verso un aumento della temperatura di 4 o 5 gradi centigradi con conseguenze catastrofiche. Le negoziazioni sul clima sono sequestrate dagli interessi delle corporation, dalla Bm e dalle grandi potenze e le proposte che troveremo a Durban saranno ancora peggiori perché basate esclusivamente su mercato, green economy e privatizzazioni. Questo mix letale metterebbe la parola fine alle speranze e alle aspirazioni di una gran parte dell’umanità  che si è ribellata alla dittatura degli interessi economici a scapito del diritto alla vita.
Dinanzi a questa prospettiva, abbiamo il diritto e la responsabilità  di fare molto di più rispetto a quanto fatto sino ad ora. Chiedere la riduzione del 40% della CO2 per il 2020 in relazione alle cifre del 1990, il 6% di Pil dei paesi ricchi per i fondi di mitigazione e compensazione e imposte sulle transazioni finanziare internazionali non basta. Specie in una situazione in cui la crisi impone il dogma della crescita, dell’austerità  e dei tagli alla spesa. Le società  in movimento che affrontano la crisi devono avere l’obiettivo ambizioso di costruire allo stesso tempo pensiero e pratiche egemoni nella società , capaci di ribaltare l’egemonia di un modello di sviluppo che vorrà  riciclarsi attraverso l’insostenibilità  della green economy. L’ultima fase del modello capitalista sarà  lanciata a Durban ed affermata a giugno del 2012 a Rio, per chiudere il cerchio a distanza di vent’anni dalla prima conferenza mondiale sulla sostenibilità , ribaltandone le buone intenzioni iniziali. Un’ultima fase, letale per l’umanità , che punta a garantire l’egemonia a manovre economiche scellerate come quelle a cui assistiamo in questi giorni nel nostro paese ed in Grecia. Nella società , attraverso le forme della democrazia partecipata e comunitaria, dobbiamo creare le condizioni per intrecciare i temi della vita con un nuovo modello di sviluppo e di partecipazione capace di costruire un processo di accumulazione di forze in grado di guardare a Rio come a un evento di rottura ed allo stesso tempo di rinascita.
All’interno di una crisi sistemica e terminale come questa, ogni conquista del passato rischia di lasciare il passo all’emergenza nazionale in nome della stabilità  (del capitale). A Genova il 21 luglio Rigas (la rete italiana per la giustizia ambientale e sociale) discuterà  di questo, unendo i temi della difesa dei beni comuni e della vittoria ai referendum con la sfida di Durban. Ma il nodo più grande sarà  sulle forme attraverso le quali costruire un movimento popolare che sappia portare, a partire da esperienze concrete nel nostro paese, il suo contributo al movimento planetario per la giustizia ambientale. La sfida per salvare l’umanità  dalla catastrofe ecologica inizia a Genova, proprio dove per tanti di noi tutti è cominciato.
www.asud.net


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