La lezione del 1992

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E in tal modo vanificherebbero più di metà  della manovra entrata in vigore la scorsa settimana. Non è colpa del debito statunitense: le difficoltà  di Obama non ci possono offrire alcuna consolazione anche perché sono di natura diametralmente opposta alle nostre. L’Europa ci ha già  dato una mano ed è bene non contare troppo su ulteriori aiuti. Dobbiamo contare sulle nostre forze sapendo che non ci sono concesse distrazioni di sorta. Vediamo perché cominciando dagli Stati Uniti e per arrivare all’Europa e, infine, a noi.
Il problema affrontato in queste ore da Obama è esattamente l’opposto di quello che stiamo vivendo sulla nostra pelle. Negli Stati Uniti non è legalmente consentito al governo federale indebitarsi al di sopra di una soglia massima, stupidamente fissata in termini assoluti anziché in percentuale al reddito generato negli Stati Uniti. Se entro il 2 agosto non si dovesse trovare un accordo nel Congresso, il governo federale non potrà  più emettere buoni del tesoro con cui finanziarsi. Non ci saranno, in altre parole, venditori di nuovi Treasury bills. Mentre continueranno ad esserci moltissimi compratori: i rendimenti che il governo federale deve offrire a chi compra i propri titoli di debito sono rimasti molto bassi nonostante l’avvicinarsi di questa scadenza, a riprova del fatto che non ci sono timori sulla sostenibilità  del debito pubblico americano. Nelle ultime settimane noi abbiamo invece vissuto una crisi molto più seria e di segno opposto: il mercato dei nostri titoli di Stato è diventato un mercato con pochi compratori e questo ha fatto schizzare all’insù gli interessi sui nostri Btp. Insomma, mentre da noi manca chi compra, negli Stati Uniti potrebbe mancare, dal 2 agosto in poi, chi vende. Ed è molto probabile che, come tutti i bracci di ferro della politica, nel Congresso Usa si troverà  un accordo all’ultimo momento.
All’ultimo momento è stato trovato un accordo anche tra i governi dell’area dell’euro, che rischiava altrimenti il collasso. È un accordo importante, che tampona una situazione d’emergenza facendo anche compiere all’architettura della moneta unica un ulteriore passo in avanti, perché la dota in embrione di una struttura per gestire le crisi di singoli Paesi, un evento tutt’altro che improbabile in un’unione monetaria di Paesi così diversi. Ma l’accordo di giovedì scorso lascia molte, forse troppe, cose in sospeso. Non precisa quale sarà  l’entità  del fondo di salvataggio. Né chiarisce come verrà  gestito, quale ne sarà  la governance. Nonostante molti, soprattutto sulla stampa estera, abbiano salutato l’accordo come una vittoria di Trichet, rischia di aprire un dualismo difficilmente gestibile fra la Banca Centrale Europea e il fondo di salvataggio, con sovrapposizioni di competenze e potenziali conflitti. Fin quando questi due nodi cruciali non verranno risolti, l’accordo della scorsa settimana rimarrà  solo un annuncio. Come tale, può temporaneamente rasserenare i mercati, ma bisogna essere consapevoli che, alla prossima crisi, bisognerà  farsi trovare già  pronti. Non basteranno più gli annunci.
I piccoli passi con cui, forse inevitabilmente, procede l’Europa ci obbligano a contare principalmente sulle nostre forze. La buona notizia è che le colpe di questo stato di cose sono principalmente nostre, non di altri. Quindi possiamo farcela anche da soli. Quattro dati lo testimoniano. Primo, fin dall’inizio della crisi del debito greco, i mercati hanno saputo tenere conto delle differenze fra i diversi Paesi: la percezione del rischio Italia è diventata sempre più indipendente dalle sorti della Grecia, che negli ultimi mesi aveva vissuto un drastico peggioramento degli spread senza contagiare il resto dell’eurozona.
Secondo, le nostre banche soffrono non perché abbiano titoli greci, irlandesi o portoghesi in portafoglio, ma perché sono piene di nostri buoni del Tesoro. Non a caso hanno fatto relativamente bene agli stress test, per quanto edulcorati, che prevedevano un allargamento degli spread sui titoli dei Paesi a rischio.
Terzo abbiamo perso tempo prezioso. Un anno fa scrivevamo su queste colonne: “In Italia le assicurazioni contro il rischio di ripudio del debito (i Cds, Credit default swaps), sono più alte per i titoli a lunga scadenza che per i titoli a breve mentre in Grecia avviene esattamente l’opposto; questo significa che i mercati ritengono che i problemi dell’Italia siano strutturali, di lungo termine: l’Italia rischia per la sua bassa crescita”. Oggi i Cds segnalano una valutazione del rischio di default molto più ravvicinata per il nostro Paese. Non è ancora troppo tardi, ma abbiamo molto meno tempo a disposizione.
Quarto, le impennate sia nei Cds che negli spread sui Btp coincidono spesso con parole al vento di politici italiani, come sottolineato a suo tempo da Mario Draghi (“Le polemiche fanno salire gli spread”). Chi chiedeva di ridurre le tasse, ad esempio, ci sta condannando a pagarne più alte per coprire gli oneri del debito. E gli spread sono aumentati anche con le notizie sui faccendieri e le corruzioni di palazzo. Comprare i nostri titoli di Stato significa anche fidarsi delle persone che sono ai posti di comando. Un peso non indifferente nell’allargamento degli spread lo hanno anche avuto una manovra debole e mal congegnata e solo in parte aggiustata in corso d’opera.
Sapendo di camminare su di un crinale molto sottile dobbiamo allora trovare le energie e il consenso per varare misure che stimolino la crescita della nostra economia. Il fatto che si possa intervenire viene documentato dai tempi rapidi con cui è stata potenziata e approvata la manovra. La classe politica può fare molto quando vuole. La nostra, purtroppo, continua a distaccarsi dal resto del Paese, esonerando solo se stessa dai sacrifici che chiede ai cittadini e creando inutili diversivi per far parlare d’altro (come nella grottesca vicenda dei ministeri a Monza). Questo 2011 assomiglia sempre più al 1992. Anche allora eravamo sull’orlo del precipizio e con una classe politica screditata agli occhi del Paese. Possibile che la storia non ci insegni nulla?


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