La storia segreta del comma 23

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La verità  sulla norma « salva Fininvest » non esiste, è un intrigo che si basa su alcuni indizi e moltissimi sospetti, rivela la durezza dello scontro tra il premier e il ministro dell’Economia.
La storia segreta del «comma 23» è l’ennesima sconfitta «ad personam» di Berlusconi, offre la plastica rappresentazione di come i nodi politici, giudiziari e ora anche finanziari si sono intrecciati, trasformandosi in un cappio che rischia di asfissiare il Cavaliere. E non c’è dubbio che sia stato lui a mettere il collo in questa corda, è lui infatti che alla vigilia della sentenza sul Lodo Mondadori ha chiesto uno scudo giuridico da inserire nella manovra per evitare di pagare subito il conto a De Benedetti, nel caso fosse condannato in appello dal Tribunale di Milano.
 È Berlusconi al centro della vicenda, ma in pochi nel governo possono realmente dire di non averne mai saputo nulla. Molti hanno solo girato la testa. In principio è l’avvocato Ghedini a spingere perché il premier ottenga dal ministero della Giustizia, dunque da Alfano, un rimedio tecnico al problema. Da un anno se ne discuteva nelle riunioni riservate a Palazzo Grazioli, per un anno la questione era stata accantonata. A tempo scaduto si cerca una soluzione d’emergenza, e sebbene il Guardasigilli si mostri titubante, viene individuato un «gancio legislativo» nella modifica di alcuni articoli del codice civile, con cui si mira a velocizzare i processi. Non è vero però che la norma «salva Fininvest» viene inserita all’ultimo momento, «non è stata certo aggiunta di soppiatto» , racconta un ministro: sta infatti nelle pieghe di questo capitolo della manovra, nell’articolo 37. E c’è un indizio che lo dimostra: il tema viene discusso alla riunione di martedì 28 giugno del pre-Consiglio, e già  in quella sede i tecnici ravvisano problemi di costituzionalità . Già  in quelle ore scatta l’allarme al Colle.
 Nel corso dei rituali contatti tra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e dei ministeri con il Quirinale, la presidenza della Repubblica anticipa la propria contrarietà  a una simile norma: è un altolà  preventivo, il preavviso di un possibile scontro. E si capisce come mai il Guardasigilli ieri spiegava che non c’era nè ci poteva essere «alcun sotterfugio» : d’altronde non era pensabile che un provvedimento di tale portata sfuggisse allo staff di Napolitano. Se così stanno le cose, non si comprende perché il premier decida di insistere, e con quali garanzie. Regna ancora l’incertezza quando giovedì 30 giugno si arriva al Consiglio dei ministri convocato per la manovra. La riunione viene a un certo punto sospesa in modo da trovare un compromesso sulla norma per i tagli ai costi della politica. Trovata l’intesa, però, il Consiglio non riprende subito, perché nel salone di palazzo Chigi mancano all’appello Berlusconi e Tremonti. Ricorda un ministro come «in quel momento tutti abbiamo avuto la netta percezione che qualcosa non andasse» .
Dopo mezz’ora i due rientrano nel salone di Palazzo Chigi. È a quel colloquio che viene fatta risalire l’intesa sulla norma «salva Fininvest» . Un indizio, a cui si aggiunge un interrogativo che porta a verità  contrastanti: il titolare dell’Economia ha solo accettato quell’articolato o— come sostengono i fedelissimi del Cavaliere — è stato lui a riscrivere il testo, inserendo quel tetto di venti milioni che l’ha resa una evidente norma «ad aziendam» ? Una cosa è certa, Tremonti sapeva. Il resto sono accuse che Berlusconi gli rivolge contro, intingendo l’ira nel sospetto. «Chiedetevi chi ci guadagna da questo disastro» , urlava ieri sera, puntando l’indice contro il padre di una manovra che «ci ha fatto perdere il gradimento del 65%del nostro elettorato» : «Se pensa di arrivare così a Palazzo Chigi può scordarselo» . Il premier — a proposito del provvedimento — sostiene di aver chiesto al superministro di «avvisare la Lega sui dettagli» , come a dire che sulle linee generali i rappresentanti del Carroccio erano a conoscenza dell’operazione.
Ecco come si giunge alla stesura definitiva della manovra, ed è in questo passaggio che compare sulla scena Gianni Letta, fino ad ora rimasto formalmente ai margini della trattativa sulla «norma salva Fininvest» . Ma è possibile che il braccio destro di Berlusconi, l’uomo che conosce tutti i risvolti del Lodo Mondadori, non sapesse della mossa disperata del Cavaliere? Anche se così fosse, è stato l’ultimo a leggere il testo della manovra prima di inviarla al Colle. E se è vero che ieri il sottosegretario alla Presidenza rimarcava come la vicenda fosse stata gestita «malissimo» , dato che «non si presenta una simile norma senza averla concordata con il Quirinale» , come mai non ha bloccato anzitempo il premier? A Letta è toccato gestire l’ultima trattativa con Napolitano, quando ormai si trattava solo di recuperare i cocci. A Letta è toccato informare Berlusconi che per il capo dello Stato non c’era altra soluzione che ritirare la norma.
A Letta è toccato sentire lo sfogo del Cavaliere, che si sente vittima del «banditismo politico-giudiziario» dei magistrati milanesi, che sente approssimarsi una «sentenza di condanna già  scritta» , e che — in un moto di sfida — ha commentato: «E se ora io non firmassi la manovra?» . La storia segreta del «comma 23» è l’ennesima sconfitta «ad personam» del premier, una sconfitta che ha molti padri ma alla fine un solo colpevole: Berlusconi.


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