Era un rottame, è la prima portaerei

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 PECHINO.Lunghezza: 302 metri; larghezza: 73 metri; altezza: 11 metri; pescaggio: 11 metri. Tutti rigorosamente riciclati. La «Varyag», la prima portaerei cinese varata ieri mattina nel porto di Dalian, è un ex residuato bellico dell’Unione sovietica ma c’è da scommettere che – come agli altoforni smontati pezzo dopo pezzo a Dortmund e Napoli e assemblati nella Repubblica popolare – Pechino saprà  regalarle una seconda giovinezza. La partenza per la verità  non è stata esaltante se è vero che, come riferisce l’agenzia di stato Xinhua, la fitta nebbia che avvolgeva la città  portuale del Nordest del paese ha impedito «a turisti e appassionati di armamenti» di ammirarla mentre prendeva il largo. E le autorità , più che celebrare l’evento hanno sottolineato che la nave da guerra «servirà  principalmente come piattaforma per ricerca, sperimentazione e addestramento».

Costruita negli anni Ottanta per la marina sovietica, dopo il crollo dell’Urss nel 1991, la «Varyag» fu ceduta all’Ucraina che però non la completò mai, per mancanza di fondi. Nel 1998 fu acquistata, per la cifra di 20 milioni di dollari Usa, dalla «Chong Lot», un’agenzia di viaggi di Hong Kong (legata all’Esercito di liberazione popolare) che, ufficialmente, avrebbe dovuto trasformarla in un casinò galleggiante da destinare a Macau. Due anni dopo la nave – che a Pechino non hanno ancora deciso se ribattezzare «Shi Lang», dal nome dell’ammiraglio che nel 1681 conquistò Taiwan, o «Liu Huaqing», padre della moderna marina cinese – iniziò un’odissea che si concluse il 3 marzo 2002, con l’approdo nei cantieri di Dalian. Il governo turco si oppose al suo transito e solo dopo il pagamento di una mega-cauzione le permise di passare lo stretto dei Dardanelli. Troppo larga per attraversare il canale di Suez, la “Varyag» fu costretta a fare rotta verso Gibilterra e circumnavigare l’Africa.
Pechino sottolinea che tutto ciò che mancava alla portaerei, pervenuta come «un guscio vuoto», è made in China: dalle cabine, agli impianti elettrici, alle armi. Per la rivista Defense news, le foto rese pubbliche indicano che l’imbarcazione è stata equipaggiata di un radar simile agli statunitensi Aegis, mitragliatrici anti-aeree e un sistema di missili anti-aerei del tipo FL-3000 Flying Leopard. Gli analisti militari frenano: ci vorrà  però almeno un decennio prima che la Cina sia in grado di dispiegare una portaerei pronta a combattere, molto di più per colmare il gap con gli Stati uniti, che ne hanno schierate undici.
Ma le forze armate della Repubblica popolare negli ultimi anni hanno già  fatto passi da gigante nell’esercito e nell’aviazione. E il suo capo, l’ammiraglio Wu Sheng Li, nei mesi scorsi ha spiegato che anche la marina si sta rinnovando per venire incontro agli «interessi nazionali allargati» della Cina. Secondo un documento dell’Esercito di liberazione popolare citato dal Financial Times, tra questi ultimi è di vitale importanza la protezione delle rotte navali che attraverso il Mar cinese del sud e lo Stretto di Malacca portano in Medio Oriente, da dove Pechino importa la maggior parte del suo greggio.
Nelle ultime settimane si sono verificate diverse scaramucce proprio nel Mar cinese meridionale. Filippine e Vietnam in particolare temono il modo, sempre più incisivo, con cui Pechino avanza le proprie rivendicazioni. Con un editoriale del Quotidiano del popolo, il governo ha chiarito i tre fattori che secondo Pechino stanno rendendo la disputa particolarmente delicata. Anzitutto «l’aumento del prezzo del petrolio, il miglioramento delle tecniche per ricercarlo nei fondali marini e la domanda di materie in grado di produrre energia nel Mar cinese del sud stanno assumendo sempre maggiore rilievo». Inoltre, continua l’organo ufficiale del Partito comunista cinese (Pcc), «gli Stati uniti da quando si è insediato Obama hanno spostato il loro asse strategico dall’anti-terrorismo all’Asia, a causa della rapida crescita economica di quest’ultima». Infine c’è l’impetuosa crescita economica cinese. Il giornale bacchetta quei paesi asiatici che «utilizzano l’intervento degli Stati uniti per bilanciare gli interessi della Cina, sperando di trarre profitto da un equilibrio tra questi due grandi mercati».


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