Il giallo dei tre italiani liberati “Dovevamo proteggere un libico”

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TRIPOLI – Appassionati di vita militare, pronti all’avventura e se proprio necessario anche a menar le mani: questo sembrano i tre contractor italiani ripartiti ieri da Tripoli in nave dopo un’esperienza traumatica, raccontano, nelle prigioni di Gheddafi. Vittorio Carella dice che è passato tanto tempo dalla sua ultima esperienza militare, in un reparto comunicazione degli Alpini, in Kosovo. Ma quando un cecchino spara un colpo verso l’ingresso dell’hotel Corinthia di Tripoli, lui non si scompone. Guarda un attimo i segni della pallottola, valuta il rimbombo, e dice tranquillamente all’operatore tv: «Punta la telecamera verso quel palazzo in fondo, l’ultima finestra». Il cameraman, incredulo, obbedisce. E riesce a immortalare lo sparatore.
Dei due colleghi, Luca Boero è l’unico ad avere un passato militare: gli amici genovesi dicono che di recente faceva il buttafuori nella discoteca di Luca Risso, famoso come fidanzato di Ruby Rubacuori. Antonio Cataldo, il più giovane dei tre, non ha esperienza diretta ma nel suo paesino dell’avellinese viene ricordato per la sua abitudine di passeggiare in tuta mimetica. Ieri i tre si sono finalmente imbarcati verso l’Italia, sulla stessa nave che riporta a casa i giornalisti reduci dal sequestro. Prima della partenza, Vittorio Carella era l’unico a tenere a bada l’ansia.
Signor Carella, la storia del vostro arresto-sequestro in Libia ha suscitato molti dubbi in Italia. Voi raccontate di essere stati ingaggiati da un’agenzia per svolgere “compiti di sicurezza” in Europa e in Tunisia, dopo di che l’impegno di lavoro è diventato un incubo. Come si chiama questa agenzia?
«Non glielo posso dire».
Ma se è un meccanismo riservato, come funziona?
«Ci sono persone che mi conoscono, che mi hanno contattato, e io ho cercato i due colleghi per certi compiti di sicurezza».
Voi dite che vi hanno arrestato nella zona di Ben Guerdane, a due passi dal confine libico. Ma perché eravate lì?
«Il nostro compito era quello di proteggere proprietà , e alcune erano proprio nella zona di Djerba».
Però resta difficile credere che i soldati libici abbiano sconfinato in territorio tunisino per arrestarvi, se il vostro impegno non aveva niente a che fare con la situazione da questa parte del confine. Lei come lo spiega?
«Con il fatto che il committente del nostro lavoro era libico. Questa persona ci ha detto: purtroppo siamo costretti a stare dalla parte di Gheddafi, e temiamo per le nostre proprietà , sia in Europa che in Tunisia. Per questo serviva la protezione».
Come si chiama questo libico?
«Non posso dirlo».
La sua ricostruzione dell’accaduto è ancora molto lacunosa, non crede?
«Tutto verrà  chiarito, ma solo quando saremo in Italia».
Signor Carella, voi siete dei mercenari?
(ride) «Guardi, le confesso tutto: in realtà  mi chiamo James Bond e lavoro per l’Mi-6. Ma no, non scriva questa battuta, se no a casa me ne dicono di tutti i colori…».
Allora, siete dei mercenari?
«Noi non ci vendiamo. Non lavoriamo sulle strade. Non ci prostituiamo».
Ma se siete vittime del regime di Gheddafi, perché allora tutta questa fretta di lasciare la Libia il prima possibile?
«Perché quando siamo stati malmenati, pestati, minacciati, abbiamo dovuto firmare qualsiasi cosa ci hanno messo davanti. Abbiamo anche dichiarato al giudice che eravamo sostenitori del regime, perché non avevamo scelta. E adesso temiamo che i ribelli possano credere a quelle dichiarazioni estorte, e prendersela con noi».


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