La caduta dell’impero giapponese

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TOKYO. Prima della grande scossa, l’esistenza in Giappone seguiva un copione invidiato da tutti. L’uomo, appena laureato, entrava in un’azienda da cui usciva il giorno della pensione: «sararyman» a vita nello stesso posto fisso. La donna percorreva il medesimo cammino fino al matrimonio, o alla nascita del primo figlio: una società  perfettamente programmata per produrre la media borghesia più ricca del mondo, orgogliosa della propria aspirazione al successo, alla giustizia e alle certezze. L’11 marzo ha finito di dissolvere il modello dell’utopia asiatica, che in quarant’anni aveva proiettato la nazione dall’olocausto atomico di Hiroshima alla testa del progresso globale.
Raisuke Furukawa, 31 anni di Tokyo, è il simbolo della grande crisi, precipitata con lo tsunami che ha travolto le coste a nordest dell’Honshu e innescato la fuga radioattiva a Fukushima. In meno di sei mesi ha cambiato tre lavori: da manager della prima catena di grandi magazzini del Paese, è diventato un consulente nel ramo informatico. È disoccupato, mentre usa moglie Etsuki è stata licenziata e ha rinunciato a sognare un figlio. Fino al catastrofico terremoto nella regione del Tohoku, i Furukawa si consideravano «classe media in ascesa». Oggi si definiscono parte dell’«emergente categoria di lavoratori precari e poveri». Il sisma sociale che continua a scuotere il tramonto della terza potenza del pianeta, ancora sotto choc dopo il sorpasso cinese del 2010, dall’economia si è trasmesso alla politica.
Venerdì si è dimesso il premier Naoto Kan. Dopo un week-end elettorale, oggi il partito democratico sceglie il suo ennesimo nuovo leader. Il parlamento, in cui il Pdj ha la maggioranza, lo eleggerà  domani primo ministro. È il quinto governo in sei anni, il terzo negli ultimi due. Prima del settembre 2009, per quasi mezzo secolo, avevano governato i conservatori liberaldemocratici: potere con garanzia del posto fisso, l’icona della «democrazia della stabilità », naufragata tre anni prima con l’uscita di scena di Junichiro Koizumi. L’impopolarità  del gabinetto Kan, 64 anni ed ex ministro delle Finanze, nel corso dell’estate aveva toccato vertici inviolati. Dichiarava di sostenerlo il 15,8% dei giapponesi, gli stessi oggi convinti che nemmeno un cambio potrà  migliorare la situazione. Dentro i democratici, travolti dagli scandali e dalla crisi di un modello economico considerato inattaccabile, la lotta per la successione a Kan ha scavato nuove fratture. Cinque i candidati, divisi dalla ricetta per arrestare il caro yen, per inventare un sistema energetico alternativo all’atomo, frenare la fuga delle imprese e trovare i fondi per la ricostruzione post-tsunami.
Al voto finale di oggi giungono favoriti l’ex ministro degli Esteri Seiji Maehara, 49 anni, e Banri Kaieda, ministro dell’Industria, 62 anni. Il primo è famoso perché in marzo s’è dimesso dopo aver ammesso donazioni elettorali per 7 mila dollari da cittadini sudcoreani: avevano cognomi giapponesi ed erano residenti, ma la legge non consente sostegni stranieri. Il secondo vanta l’appoggio del potente leader-ombra del Pdj Ichiro Ozawa, sospeso per un giro di tangenti, e dell’ex premier Yukio Hatoyama, durato pochi mesi. Metà  dei grandi elettori democratici appoggiano la nascita di una grande coalizione con i principali partiti dell’opposizione. Gli altri, schierati con Kaieda, sono contrari. Le azioni degli altri tre candidati, Yoshiko Noda, Michihiko Kano e Sumio Mabuchi, appaiono in ribasso. Nessuno crede che il nuovo leader resterà  al potere oltre qualche mese, ma il finale della corsa per un governo che nasce già  «in scadenza» sarà  scritto oggi solo all’ultimo istante. Per il Giappone è una drammatica novità . Incertezza e pessimismo scavano nelle viscere del Sol Levante, battuto dai cambiamenti più profondi successivi alla fine dell’egemonia imperiale. Tsunami e crisi nucleare, in primavera, erano stati colpi devastanti: oltre 20 mila morti e più di diecimila dispersi, duecentomila senza tetto, centomila evacuati dalla prefettura di Fukushima. Era chiaro che una nazione con un debito pubblico pari al 233% del Pil, avrebbe faticato a trasformare la distruzione in perno di una ripresa.
I sondaggi però affermavano che la gente, ancora forte del suo incrollabile senso del «gruppo sopra tutto», restava convinta che un effetto-Kobe ancora era possibile. Nel 1995 la ricostruzione dal terromoto, prevista in un decennio, fu ultimata in un anno e la regione si è trasformata in un motore di sviluppo. Quest’estate invece, segnata dalle limitazioni energetiche e da incessanti scosse di assestamento, ha distrutto anche la speranza in un miracolo e i giapponesi paragonano ormai il «dopo 11 marzo» alla loro medicina tradizionale: non è certo che il rimedio funzioni e spesso la fine del malato giunge più rapida rispetto ai benefìci delle erbe. A Tokyo la percezione di un congedo collettivo dall’euforia del lusso e dei consumi, di un fatale capolinea sistemico del commercio, dell’industria e della finanza, appaiono evidenti. Di notte lo skyline dell’ex capitale più alla moda dell’Oriente è buio. I saldi anticipati svendono merce rimasta in vetrina dall’anno scorso, alberghi e ristoranti rinunciano a fare il bilancio degli ultimi sei mesi. Tutti si sentono in mobilità , pronti ad andare altrove, o già  partiti. All’evacuazione delle zone distrutte dal terremoto, dallo tsunami o dalla contaminazione nucleare, corrispondono l’esodo professionale, la delocalizzazione delle multinazionali e la fuga dei politici. La domanda che percorre l’opinione pubblica, umiliata nel prendere atto che la costa del Nordest resterà  una montagna di macerie tossiche per almeno i prossimi tre anni, è chi realmente saprà  prendere in mano il destino della nazione dopo che tutti i protagonisti «della peggiore catastrofe dalla fine della seconda guerra mondiale» saranno usciti di scena. Il presidente della Tepco, la società  che gestisce la centrale nucleare di Fukushima, nei giorni dell’emergenza si è dato malato e si è infine dovuto dimettere per la vergogna di menzogne e incapacità  nel limitare l’avaria dei reattori.
Naoto Kan ha pagato invece il suo essersi rivelato un vecchio «sararyman» del potere. Sempre lontano dall’epicentro del disastro, in ritardo sugli aiuti, disinformato, opaco e incerto, incapace di tradurre in business la tragedia e di proporre alternative concrete all’annunciato addio al sistema economico fondato su 56 centrali nucleari. Sabato, fuori tempo massimo, è andato a Fukushima per chiedere scusa alla popolazione e ammettere che per trent’anni lì non tornerà  la vita. Dopo le dimissioni, la tivù pubblica ha mandato in onda un servizio impietoso. Si chiedeva cosa diavolo contenessero i fogli della cartella che per sei mesi il premier ha esibito tra le mani davanti alle telecamere e riprendeva la sentenza senza appello di Nobuko, moglie del premier. Era il giugno 2010: «Mio marito è un numero due o tre, un cuoco terribile e non si sa vestire. Non è un leader e in un’altra vita non lo risposerei». Un’inopportuna battuta coniugale si è rivelata una tempestiva profezia nazionale e ieri, nel pieno della lotta per la successione dentro il partito democratico, il Giappone è stato costretto a rimettere a fuoco il suo profilo: un Paese in ginocchio a causa della forza della natura, privo di guida politica, con un sistema economico minacciato dal fresco downgrade di debito pubblico e banche, demolito dal caro yen e con un apparato industriale in fuga verso l’India e il Sudest asiatico.
«Il governo – dice Hiromasha Yonekura, capo della potente lobby d’affari Nippon Keidanren – doveva essere licenziato già  il 2 giugno, quando ha subìto la prima sfiducia in parlamento. Altri mesi buttati, mentre Cina e Corea del Sud hanno occupato i nostri mercati, attirato le imprese sane e acquistato quelle in crisi». Quattro le missioni impossibili che il nuovo governo è costretto ad affrontare: la ricostruzione delle zone cancellate dall’oceano Pacifico, stimata in un impegno tra i 180 e i 220 miliardi di euro, quasi il 9% del Pil; la fine della fuga radioattiva da Fukushima, dove i livelli cumulativi di contaminazione hanno superato i 278 millisievert, rispetto all’1 sopportabile da una persona in un anno; la riconversione strutturale del sistema energetico nazionale, che la popolazione pretende verde e non più dipendente dall’energia atomica, mentre le lobby della grande industria vogliono ancora aggrappato al nucleare; lo stop alla migrazione di massa dell’apparato produttivo, in cerca di luoghi meno cari e più sicuri. Le aree distrutte e contaminate, in assenza di nuovi eventi catastrofici, impiegheranno decenni per tornare abitabili. Un Giappone invecchiato e svuotato di tecnologia, in balìa di un debito non sostenibile oltre il 2015 e di uno yen ai massimi storici, affidato ad una sempre più impopolare e impoverita difesa americana, teme così di restare vittima dello scontro finale tra i suoi storici interessi interni e contro le giovani potenze emergenti del secolo. «Una somma senza precedenti di fattori negativi – dice Hiroshi Watanabe, presidente della Banca del Giappone per la cooperazione internazionale – costringe persone e imprese a lasciare la nazione. Il problema non rinviabile è varare un piano per trattenere le risorse capaci di dare un futuro nuovo al Paese». Limitazioni energetiche, black-out e impianti distrutti, crollo dei consumi interni, caro-yen e incubo-radiazioni, in sei mesi hanno fatto schizzare a 39,3 miliardi di dollari le fusioni e le acquisizioni estere delle aziende giapponesi, il 20% in più rispetto all’intero 2010. I colossi di auto, elettronica, acciaio e alimentare guardano alle occasioni nei mercati dotati di materie prime e forza lavoro a basso costo, ma per la prima volta scelgono di sfruttare la fragilità  di dollaro ed euro per svuotare di occupazione un Paese che gli analisti di Moody’s considerano «privo delle condizioni per risanare il proprio bilancio nel medio periodo».
Dal 2000 gli stipendi sono calati del 12% all’anno. La paga media annuale resta però di 45 mila euro, quota non più finanziabile dopo l’11 marzo e tanto più in uno scenario di recessione, accelerata dalla progressiva chiusura delle centrali atomiche. «Lo tsunami – avverte la National Tax Agency – inizia ora. Il gettito fiscale scende, il bisogno di fondi pubblici cresce e l’aumento delle tasse non può essere rinviato. I consumi caleranno ancora e la deflazione non ci salverà : anche il nuovo governo può bruciarsi in pochi mesi, vittima delle onde scatenate dal sisma che ha abbattuto la maggioranza di Naoto Kan». Nulla sarà  più come prima, dopo il grande terremoto dell’Honshu. Quasi centomila persone, tra le prefetture di Miyagi e Iwate, vivono ancora nei centri per gli sfollati e un’apparenza di normalità  resta remota. Agricoltura e pesca sono paralizzate dalla contaminazione atomica, le multinazionali quotate in Borsa smobilitano per l’incertezza energetica e i mercati finanziari di Tokyo non arrestano la costante caduta dei titoli.
«Questi sei mesi – dice Toshizo Tanaka, vice presidente esecutivo di Canon – sono costati al Giappone poco meno di 400 miliardi di euro. Appare ormai naturale che lo tsunami intaccherà  le prospettive di ripresa globale e che non basta cambiare premier per risolvere sofferenze interne ormai strutturali». Qui la terra ha sempre tremato e il mare da sempre sommerge le isole dei vulcani emersi dell’oceano. La fuga radioattiva da Fukushima, l’incubo nucleare e lo scontro politico epocale su un modello economico compatibile con la democrazia e con la vita, azzerano però ogni esperienza. La sopravvivenza del Giappone quale super-potenza dell’Oriente rivolta verso Occidente, contrappeso dell’ascesa cinese, è la sfida da cui dipende il destino del secolo. Dopo la «grande onda» tutto è ignoto, imprevedibile e difficile come mai. Per questo la nazione è di nuovo un arcipelago alla deriva nella corrente, il nuovo premier nasce zoppo e solo il vecchio imperatore Akihito, costretto a tagliare anche le spese di pulizia del Palazzo, conserva la certezza triste del posto, suo malgrado, fisso.


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