La lezione di Nardò

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Politiche e processi analoghi a quelli che oggi portano alla crisi internazionale da tempo hanno messo in ginocchio buona parte dell’agricoltura dell’Europa del Sud. Una crisi che qui a Nardò si manifesta nei bassi prezzi di angurie e pomodori e a cui i braccianti africani hanno dato una risposta chiara: organizzazione autonoma del primo sciopero in Italia di braccianti stranieri per rivendicare diritti legati al lavoro e per spezzare il sistema del caporalato. Non che abbiano trovato molti sostegni istituzionali. Il cielo della politica parlamentare è concentrato sui listini di borsa, e l’unico sindacato che ha appoggiato i braccianti, la Flai-Cgil, ha puntato tutto su trattative in provincia e regione che stanno sfiancando gli scioperanti, di fronte ad associazioni datoriali che negano ogni responsabilità . Paradossalmente è stato il procuratore Cataldo Motta, capo della Dda di Lecce, a riconoscerne il coraggio e la caparbietà : «una lezione di civiltà » ha definito questa presa di parola diretta dei migranti. Singoli cittadini e associazioni anti-razziste hanno fornito un sostegno concreto importante, ma che non sembra bastare.
I lavoratori africani in questi dieci giorni hanno imparato che i rapporti di lavoro si modificano solo nei campi, dove devono confrontarsi con un padronato che ha largamente evitato la meccanizzazione certo di poter contare sui costi più limitati della manodopera, grazie a un’organizzazione del lavoro che fa perno sul caporalato italiano e straniero. Sei caporali «etnici», tunisini, sudanesi e ghanesi, gestiscono la raccolta qui a Nardò. Il sistema del caporalato ricalca per certi versi l’organizzazione frammentata ed esternalizzata del lavoro industriale e trae linfa vitale dall’isolamento fisico, sociale e politico della manodopera. Non è un caso che lo sciopero sia organizzato a partire da una struttura, la Masseria Boncuri, gestita dall’associazione Finis Terrae e dalle Brigate di solidarietà  attiva, che da due anni hanno lanciato la campagna «Ingaggiami. Contro il lavoro nero».
La Masseria costituisce oggi un laboratorio politico e il nucleo duro degli scioperanti ne sembra consapevole: la rottura dell’isolamento ha portato a lunghe, e talvolta tese, discussioni tra i migranti africani, tutti maschi. Burkinabé, ghanesi, guineani, sudanesi, togolesi, tunisini dai 25 ai 40 anni circa, sebbene qualcuno arrivi anche ai 50 anni. Accanto a quanti possono contare su un permesso umanitario o sono in attesa dello status di rifugiato, vi sono operai espulsi dalle fabbriche settentrionali, oppure braccianti moderni che seguono le raccolte nel Mezzogiorno. Solo una piccola parte è sprovvista del permesso di soggiorno, spesso in fuga dal conflitto libico, e arrivata qui dopo aver sperimentato un qualche centro di detenzione.
Sperano di ottenere un miglioramento nelle condizioni di lavoro qui a Nardò, per essere poi più forti nei prossimi mesi, nelle raccolte di Foggia, Palazzo San Gervasio, Rosarno. Aree che condividono con questo lembo di Salento molte criticità : un’agricoltura che scarica le proprie contraddizioni sui braccianti stranieri; Centri per l’impiego che hanno delegato la mediazione lavorativa ai caporali; amministratori incapaci di far fronte alle più semplici questioni di accoglienza e trasporto dei braccianti senza uscire dalla logica dell’emergenza. E là  non vi sono esperienze come quella del campo della Masseria Boncuri a creare una situazione favorevole alla mobilitazione dei braccianti.
Lo sciopero, sostenuto ora da un nucleo relativamente ristretto di migranti, ha già  prodotto qualche effetto: i caporali hanno iniziato a regolarizzare i lavoratori e alzato il prezzo del cassone. Il fatto che il pagamento avvenga a cottimo e non su base oraria non è però stato sostanzialmente messo in discussione, neppure dai lavoratori. Con la loro emigrazione i lavoratori africani speravano di contrastare i processi di svalutazione che li hanno colpiti nei paesi di origine negli ultimi vent’anni. Ma hanno capito in fretta che lo «sciopero con i piedi» è insufficiente. Come spesso accade sono i migranti a segnalare le nuove frontiere della precarizzazione del lavoro, e questa volta anche a indicare la possibilità  e i modi di lottare contro di essa. Vista la violenza con cui il capitalismo internazionale si è espresso in questi mesi, c’è da augurarsi che questa lotta possa contribuire a prefigurare una risposta.


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