Pechino adesso teme il contagio “Sganciamoci dal biglietto verde”

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Pechino. Chiesto a gran voce, ora che è fatto lo storico taglio del rating Usa spaventa la Cina. Pubblicamente Pechino alza ancora i toni contro il debito di Washington.
E chiede all’America di smetterla di «vivere al di sopra dei propri mezzi, finanziando gigantesche spese militari e un welfare salato accendendo prestiti a tutto spiano con il resto del mondo». Il primo banchiere della Casa Bianca da ieri però fa i conti e si chiede quanto gli costerà  il declassamento di Standard&Poor’s. Nella finanza globale l’ira politica conta poco, come il piacere di assistere all’agonia del tuo debitore. I media di Stato rilanciano così rimproveri e lezioni agli Usa e non rinunciano a sottolineare come «le vecchie democrazie occidentali devono fare un esame di coscienza per non precipitare nell’abisso finanziario», mentre gli Stati Uniti non «possono più lasciare che la corsa elettorale prenda in ostaggio l’economia globale». Propaganda della seconda potenza del pianeta, proiettata dal vecchio complesso d’inferiorità  alla nuova certezza della superiorità .
Perché il governo cinese nei fatti adesso teme che anche il conto delle agenzie di rating sarà  infine a suo carico e che la crisi di Usa ed Europa finirà  con il fermare la sua marcia verso il dominio del secolo. Durezza e insistenza esercitano la pressione politica che Pechino pretende, ma hanno concrete ragioni economiche. Ovviamente la Cina è preoccupata dal destino dei suoi 1.160 miliardi di bond Usa ed è convinta che a deprezzamento del dollaro e tagli del rating Usa non sia estranea una manovra ai suoi danni. Lo spettro che da ieri sente incombere è però ben più minaccioso. Nel lungo periodo un Occidente insolvente e con i mercati azionari in caduta si trasformerebbe in una valanga anche per l’Oriente. Per la Cina, dove il regime resiste grazie alla promessa di un boom del Pil senza fine, sarebbe il capolinea della quarta generazione del potere post-maoista. Rispetto al 2008, quando il maxi-piano di salvataggio cinese ha salvato le finanze mondiali, tutto è cambiato.
Ufficialmente Pechino continua a correre, ha un fondo sovrano più liquido della Banca mondiale, non smette di acquistare i debiti altrui e cresce attorno al 9% all’anno. A luglio però Moody’s ha lanciato l’allarme e il governo cinese non ha smentito: le amministrazioni locali hanno scavato un buco di 375 miliardi di euro e oggi le autorità  centrali non potrebbero finanziare un secondo salvataggio, nazionale e globale. «Il problema – dice Yu Yongding, ex membro della Banca centrale – è sganciarsi dal dollaro e creare una nuova valuta di riserva mondiale. Ma i mercati sono così fragili che si rischia il disfacimento degli Stati: Pechino è un cacciatore in trappola: più vince e più perde». Prima destinataria di investimenti esteri, la Cina si trova a prestare soldi presi in prestito a costi maggiori: scoppia di bond Usa e di titoli Ue, non riesce ad importare beni e servizi ed è costretta a continuare a sostenere i clienti che l’affossano.
Tra giovedì e ieri Pechino ha così preso atto che il controllo di Stato sull’apprezzamento dello yuan ormai è insostenibile. Il «diritto di esigere che gli Usa affrontino il problema del debito» ha dunque due obiettivi principali: tutelare il proprio credito e allontanare l’incubo recessione in Occidente, che distruggerebbe la nazione-fabbrica fondata su export e svalutazione. Rallentare il tramonto Usa e fondare un nuovo sistema monetario internazionale, aprendo l’era post-dollaro del reminbi, apre però un altro fronte in Oriente: quello tra i blocchi Cina-Russia e Giappone-Corea del Sud.
Mentre Pechino ieri ironizzava su «Zio Sam che si carica di debiti per pagare i debiti», Tokyo ha confermato «piena fiducia nei titoli del Tesoro Usa», garantendo che il taglio del rating «non modificherà  la loro attrattiva come investimento». Il Giappone, con 912 miliardi di bond Usa, è il secondo creditore della Casa Bianca e per salvare il dollaro giovedì ha stanziato 4 mila miliardi di yen (36 miliardi di euro).
Il debito dell’America spacca l’Asia, unita solo sul sostegno all’Europa, ultimo mercato e anello indebolito dalle divisioni. Pechino-Mosca e Tokyo-Seul, da posizioni opposte, invocano un «vertice anti-caos con Usa e Ue» e pensano già  alla riaperture delle Borse di domani. In Oriente scivolano da mesi e venerdì è stato un tonfo. Listini ai minimi da un anno, e non per colpa di S&P.


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