Prodi firma: «Legge elettorale iniqua»

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ROMA — Solo la caparbietà  e il puntiglio di Arturo Parisi potevano riuscire a rianimare un referendum che sembrava destinato a morire. Tanto ha detto, tanto ha fatto, che alla fine sono arrivate firme eccellenti.
Prima di tutte quella di Romano Prodi, che ha aperto la strada: «L’ho fatto per dovere civico. Questa è una legge elettorale iniqua che deve essere sostituita». A quel punto anche Walter Veltroni, che a luglio aveva frenato sull’iniziativa, è sceso in campo, con alcuni parlamentari a lui vicini: Stefano Ceccanti, Roberto della Seta, Ermete Realacci, Mauro Agostini, Jean Léonard Touadi e Mariapia Garavaglia.
Ma il fronte si è allargato: l’iniziativa è andata oltre la politica. Ha firmato l’ingegnere Carlo De Benedetti: lontano dalle telecamere, nel comune del Cuneese dove ha la residenza. Ha in mente di fare altrettanto il presidente della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello. E i referendari stanno corteggiando anche Luca Cordero di Montezemolo.
Ma è nel Pd che si registra lo scossone più grande. L’altro ieri sera Pier Luigi Bersani aveva invitato i «segretari locali del partito a non mettere il cappello» sul referendum. E aveva spiegato che quell’iniziativa era comunque «una extrema ratio», perché il Pd vuole portare avanti in Parlamento la sua proposta di riforma. Tanto che il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, che prima era prontissimo a firmare, si è preso una mini-pausa di riflessione.
Il giorno dopo, però, gli argini si sono rotti. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi ha annunciato: «Firmerò come Prodi». Poi è stata la volta del sindaco di Bologna Virginio Merola: sottoscriverà  anche lui il referendum. E nella serata di ieri decideva di firmare anche il presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani, da sempre uomo vicinissimo a Bersani.
Insomma, gli ex ds non hanno raccolto l’appello del loro segretario e hanno deciso di mobilitare le due regioni rosse per eccellenza. Aggiungendosi così al vicepresidente del Senato Vannino Chiti (il primo ex ds di peso a sottoscrivere il referendum) e al sindaco di Torino Piero Fassino. Tanti altri parlamentari del Pd sono pronti a seguire l’esempio: da Ignazio Marino a Enzo Bianco. «Il referendum è uno strumento di pressione», ha sottolineato Veltroni spiegando per quale motivo ormai molti nel Partito democratico sono propensi ad aderire all’iniziativa referendaria.
E sempre ieri uno dei due quotidiani del Pd, Europa, ha deciso di rompere ogni indugio e di schierarsi apertamente in questa battaglia. «Per cambiare la legge elettorale c’è solo il referendum», ha ammonito un editoriale del giornale, in cui si spiega che l’obiettivo della raccolta delle firme necessarie è «difficile, ma possibilissimo». Lo pensa anche il caparbio Parisi: «Certo, abbiamo poco tempo, e se non ci fosse questo problema, darei già  per scontato il raggiungimento del traguardo, ma è indubbio che dopo la firma di Prodi l’iniziativa ha avuto un’accelerazione impressionante».
Per questa ragione l’ex ministro della Difesa ha invitato Bersani a non attendere oltre: «Non sia l’ultimo a firmare». E il prodiano Giulio Santagata ha lanciato un avvertimento al Pd con queste parole: «Mi auguro che chi ha capacità  organizzative non si tiri indietro, non aspetti il nostro fallimento, perché sarebbe un fallimento della democrazia».
Ma ieri sera Bersani ha ribadito la sua posizione: «Il quesito referendario non rappresenta la proposta del Pd. I comitati promotori facciano il loro lavoro e i partiti, per favore, non ci mettano il cappello sopra. Quando sarà  l’ora di combattere, allora il partito deciderà  di dare una mano».
Per quale motivo il segretario non ha ritenuto opportuno cavalcare questa iniziativa? C’è chi ritene che Bersani abbia agito in questo modo per non rompere con l’Udc, contrarissima al Mattarellum, come ha ripetuto Rocco Buttiglione: «Non vorremmo che la firma di Prodi sia solo un modo per impedire ogni alleanza tra il centrosinistra e il Terzo Polo, poiché è chiaro che se il Pd sposa il Mattarellum rinuncia a ogni ipotesi di intesa con noi».
Senz’altro il segretario ha valutato anche questo, ma l’impedimento più grosso, in realtà , viene dall’interno del partito, dove non c’è una posizione univoca sulla riforma elettorale. Se Bersani prendesse una posizione troppo smaccatamente pro-referendum rischierebbe di lacerare il Pd.


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