Una bufera minaccia Damasco

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 Hama non è tutta la Siria. Questa città  di 500.000 abitanti, ribelle dall’indipendenza del 1946, schiacciata sotto le bombe nel 1982 dopo un’insurrezione dei Fratelli musulmani, quindi emarginata, concentra su di sé l’attenzione da quando sono scoppiate le rivolte, in marzo. Il Primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan aveva messo in guardia Damasco contro una ripetizione dei massacri del 1982. Tutti i media internazionali vanno a caccia delle voci più folli che circolano su questa città  simbolo, e le diffondono senza verificarle.

Raggiungere la città , situata duecento chilometri a nord di Damasco, tramite un’autostrada in buono stato, si rivela più facile del previsto. Un solo checkpoint dell’esercito sorveglia l’ingresso. Alla periferia, mezza dozzina di carri armati è nascosta ai bordi delle strade.
Hama è deserta. Alcuni taxi carichi di famiglie lasciano la città . Il nostro veicolo deve fare una gimkana fra gli ostacoli accumulati all’ingresso di ogni strada: un bric-à -brac di pezzi di selciato, rami, ciottoli , bidoni dei rifiuti… Qui, un autobus bruciato; là , la carcassa di un’auto. Queste fragili barricate dovrebbero frenare una incursione a sorpresa delle forze dell’ordine in questa città  «liberata». Su dei teli, slogan scritti a mano sommariamente proclamano: «Il popolo vuole la caduta del regime!», «Il 1982 non si ripeterà !».
Il nostro veicolo viene bloccato e dobbiamo spiegarci con alcuni giovani che filtrano il passaggio. Uno di loro ci guida nel dedalo di strade e vicoli. Prima sosta: ci fanno sedere, ci circondano, rispondono alle nostre domande. Decine di persone si uniscono alla conversazione, ci interpellano. Alcuni portano foto di martiri (un fratello, un cugino, un amico); altri, scene registrate su un telefono cellulare, alcune delle quali difficili da reggere – un cervello esploso, una testa in frantumi… Un’immagine – a detta di un uomo – mostra due corpi schiacciati da un carro armato. Ma il suo vicino corregge: «No, no, da una grossa auto: guardate i segni.»
Perché le strade sono vuote? All’infuori dei giorni delle manifestazioni, il venerdì, tutti si rinchiudono in casa. Per gli uomini ci sono turni di guardia: alcuni dormono di notte, altri di giorno.
Molte donne sono state evacuate, come altri abitanti che temono il ripetersi del 1982. E quest’autobus bruciato? «Sono le forze dell’ordine che danno fuoco e vogliono dare a noi la responsabilità . Sostengono che vogliamo creare un emirato islamico; cercano di nascondere armi nelle moschee per incriminarci.»
«La nostra rivoluzione è pacifica silmiyya]»: la migliore arma dei manifestanti, dall’Egitto al Bahrein, passando per lo Yemen. Nessuna delle persone che incrociamo è armata, tranne per un bastone insignificante. Anche se, in altre regioni, gruppi armati si scatenano, rafforzati da «combattenti arabi» del Libano o dell’Iraq, e sono state accertate vendette locali contro ufficiali e soldati, questi fenomeni restano minoritari. Un volantino del 1 giugno a Hama dà  istruzioni precise ai manifestanti: evitate qualsiasi disordine; rispettate gli edifici pubblici; astenetevi dall’insultare o dal provocare le forze dell’ordine. «Noi protestiamo contro l’oppressione, non vogliamo opprimere nessuno.»
Chi sono le persone che si sono accalcate attorno a noi? Uno è laureato in filosofia, l’altro medico, un terzo ingegnere. Tutti assicurano di volere l’avvento di un regime «civilizzato» e, in primo luogo, la fine dell’arbitrio e dell’umiliazione, il rispetto della loro dignità  (karama). «Possono prenderci tutto, ma non la karama.» L’esperienza degli arresti, con la loro parte di maltrattamenti e di torture, ha lasciato un ricordo traumatizzante. «Abbiamo deciso che non andremo più in prigione – esclama uno-. Non ci resta che la scelta fra il cimitero e la libertà .» Si contano diverse centinaia di prigionieri politici per Hama, fra 10.000 e 15.000 per l’intero paese. Mentre la nostra discussione prosegue, giovani volontari raccolgono i bidoni dei rifiuti nella strada.
Uno dei responsabili mette un po’ d’ordine nello straripare delle testimonianze e delle esclamazioni; ripercorre il corso degli eventi qui da quando sono iniziati i disordini in Siria. Ancora paralizzata dallo spettro del 1982, Hama ha aspettato prima di unirsi al movimento. A fine aprile, prime manifestazioni, primi morti; ma il dialogo resta possibile. «Una delegazione della città  ha incontrato il presidente Bashar al-Assad l’11 maggio. Ci ha promesso che i responsabili dei massacri sarebbero stati giudicati e che l’esercito non sarebbe entrato in città . E poi c’è stato il 3 giugno.»
Seduti all’ombra, con una temperatura che si avvicina ai 45 gradi, ascoltiamo le testimonianze, che talvolta divergono sui dettagli, ma convergono sull’essenziale. Venerdì 3 giugno, «giorno dei bambini della libertà », migliaia di manifestanti pacifici scendono in piazza, con dei fiori che vogliono offrire ai soldati e ai loro ufficiali. Le pallottole rispondono ai fiori. Si conteranno fra centocinquanta e duecentotrenta morti. «Tuttavia – prosegue il nostro interlocutore – tre giorni dopo abbiamo accettato di incontrare il presidente. Ci ha nuovamente promesso di punire i colpevoli. Il responsabile delle forze di repressione, Mohammed Mouflih, è stato richiamato a Damasco per un’inchiesta.»
Segue un periodo di calma, con la ritirata delle forze dell’ordine. Fino all’enorme raduno di venerdì 1 luglio – 800.000 persone secondo alcuni media (una volta e mezzo la popolazione!), pù probabile 200.000; un giornalista vicino alle autorità  ne ammette 70.000. Il regime viene preso dal panico, destituisce il governatore Ahmed Abdelaziz, favorevole a una gestione pacifica, e reintegra nelle sue funzioni l’ufficiale Mouflih, dopo averlo promosso. Tutti si aspettano un assalto generale quando – lunedì 4 e martedì 5 luglio – le forze dell’ordine tentano di entrare in città , arrestano decine di persone, uccidendone quattro. «Li abbiamo respinti. L’arrivo, il 7 luglio, degli ambasciatori americano e francese ci ha aiutato a sventare i loro piani». La fiducia si rompe. «Il presidente, per due volte nei suoi discorsi, ha affermato che l’esercito non avrebbe sparato sulla popolazione. L’unico governatore che abbia applicato i suoi ordini è stato rimosso! Ormai, esigiamo la caduta del regime.»
Altro incrocio, altro incontro, con gli stessi racconti terrificanti, lo stesso vibrante appello all’opinione pubblica internazionale – e lo stesso rifiuto di qualsiasi intervento militare straniero -, la stessa ospitalità : tolgono rapidamente i nostri sgabelli per sistemarci su delle poltrone; ci offrono bevande, sandwich, e persino fiori. «Non siamo salafiti, spiega uno dei nostri ospiti, siamo sostenitori di un Islam del “giusto mezzo”».
Certo, la città  è molto conservatrice, ma ci si dichiara aperti, specialmente nei confronti della minoranza cristiana. «Siamo come le dita di una sola mano». La testimonianza di un cristiano, autista di camion: «I giovani che vedete sono miei figli, mi chiamano “zio”». E le posizioni della gerarchia cristiana che appoggia il potere? «I religiosi hanno autorità  sulle cose della religione, non sulla politica. Nella mia famiglia coesistono diversi orientamenti politici e non è la Chiesa a poter decidere. »
Una visione un po’ troppo idilliaca; sotto-sotto serpeggiano discorsi d’odio, in particolare contro gli alawiti (la minoranza di fede sciita da cui provengono diversi dirigenti), ma vengono denunciati dai volantini dei coordinamenti, i tansiquiyat, come li chiamano qui.
Nel quartiere cristiano di Bab Touma, a Damasco, parecchie migliaia di persone si sono radunate intorno a un palco e a un gruppo musicale, in appoggio al presidente Assad. Numerosi giovani, ragazzi e ragazze insieme, che indossano T-shirt con il suo ritratto, avvolti nelle bandiere siriane, cantano, ballano, urlano. I cristiani, che hanno visto centinaia di migliaia di loro correligionari iracheni rifugiarsi in Siria, temono per il futuro. Uno striscione offerto da un uomo d’affari denuncia «le menzogne di al-Jazira, al-Arabiya e delle loro colleghe». Le due televisioni satellitari, finanziate una dal Qatar, l’altra dall’Arabia saudita, sono accusate di faziosità , di diffondere informazioni non verificate, di trasformarsi in strumenti per rovesciare il regime. Non è del tutto falso, ma le limitazioni imposte ai giornalisti stranieri facilitano tutte le narrazioni fantasiose. Il regime ha addirittura vietato i quotidiani libanesi al-Akhbar e al-Safir, che hanno sempre sostenuto Damasco e Hezbollah di fronte a Israele, ma che condannano i massacri.
La facciata della stazione dell’Hedjaz ricorda che, nel 1908, l’Impero ottomano aveva inaugurato una linea ferroviaria fra Damasco e Medina. Davanti all’edificio, migliaia di persone denunciano la visita dell’ambasciatore americano a Hama, le ingerenze occidentali negli affari siriani. In questo giorno festivo, questi giovani non sono né funzionari né studenti costretti a manifestare. Perché il regime ha ancora del sostegno, per quanto sgretolato: una parte delle minoranze, preoccupata di una presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici; la borghesia, compresa quella sunnita, arricchitasi da una decina d’anni grazie all’apertura economica. Né Damasco (dove le manifestazioni si concentrano nella periferia) né Aleppo si sono ancora mosse davvero. Paradossalmente, sono le regioni povere come Deraa, dalle quali il partito Ba’ath al potere ha attinto le sue forze negli anni ’60 e ’70, a essersi mobilitate, ritenendosi trascurate da un decennio.
Damasco è cambiata. Centinaia di banchetti sono sistemati sui marciapiedi, e nessuno osa cacciare i venditori ambulanti; auto sfrecciano a tutta birra, bruciando i limiti di velocità ; costruzioni sorgono senza autorizzazione. La polizia è occupata altrove e il timore della legge si attenua – una campagna pubblicitaria fa appello tuttavia ai cittadini: «Grande o piccolo, io rispetto la legge»; «Ottimista o pessimista, io rispetto la legge».
«Le pallottole hanno ucciso la paura», dice uno dei nostri interlocutori. In un ristorante all’aperto, mezza dozzina di oppositori è a tavola stasera, «alla luce del sole», senza timore di orecchie indiscrete. Ognuno sa che può venire arrestato, ma gli intellettuali, come i partiti vietati, agiscono adesso apertamente. Bisogna partecipare al dialogo nazionale deciso dal governo che si apre l’indomani? La maggior parte è scettica, e solo uno accetterà  di andarvi, «per far sentire la mia voce». «A che serve discutere di nuove leggi – si domanda un altro -, se non cambia niente? Si ha davvero bisogno di nuovi testi per lasciare, a partire da oggi, libertà  d’azione ai partiti o chiedere a personalità  indipendenti di dirigere uno dei tre quotidiani “ufficiali”?» Un terzo evoca l’amnistia: «Sono stato imprigionato e, malgrado la prima legge di amnistia, non sono stato liberato, quando l’unico capo d’accusa era l’essere intervenuto in una televisione straniera. La Costituzione vieta la tortura, che tuttavia viene praticata quotidianamente».
Boicottato da tutta l’opposizione, il dialogo nazionale viene ritrasmesso in diretta. Per la prima volta alla televisione ufficiale, i siriani possono ascoltare numerose voci denunciare la «scelta repressiva», le atrocità  della polizia e delle milizie shabbiha, spesso composte da delinquenti e che fanno regnare il terrore. Il regime si giustifica e grida al complotto straniero. Sarebbe ingenuo non capire che il suo indebolimento, se non la sua caduta, è un obiettivo degli Stati uniti, di Israele, dell’Arabia saudita, delle forze di destra in Libano.
La crisi tuttavia è prima di tutto interna, e richiede una soluzione interna.
Per Michel Kilo, oppositore di lunga data che ha trascorso anni in carcere, si impone una transizione, che potrà  iniziare solo a due condizioni: «La fine della repressione; la partecipazione della “piazza” – questi coordinamenti che, in ogni quartiere e in ogni città , organizzano la resistenza. La “piazza” è il vero attore della nostra rivoluzione, mentre i partiti di opposizione o le personalità  non rappresentano più granché. »
Chiamiamola Farida. È giovane, laureata, e, nonostante un certo nervosismo – è ricercata dalla polizia -, proclama la sua fede nel futuro. Fa parte della direzione nazionale dei coordinamenti, che concorda le sue prese di posizione e le sue azioni grazie a Internet. «Non vogliamo trasformarci in partito politico. Il nostro ruolo è di essere presenti sul terreno, di unificare le parole d’ordine e i punti di vista, di sviluppare il lavoro d’informazione. Impariamo a conoscerci al di là  dei pregiudizi, a lavorare insieme. Ognuno esprime le proprie angosce e le proprie aspirazioni in forme diverse. Uno appartiene ai Fratelli musulmani, uno è laico, un altro nazionalista arabo, ma vogliono tutti la stessa cosa: uno Stato civile. E rifiutano la violenza ». Conclude: «Ad agosto, è Ramadan, il mese più sacro per i musulmani. E, nel corso di questo mese, tutte le sere ci saranno preghiere comuni, sarà  venerdì tutti i giorni».
*Vicedirettore di Le Monde diplomatique. ©Diplo/ilmanifesto
Traduzione di Ornella Sangiovanni


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