Gettoni e stipendi a vuoto le 500 società  fantasma gestite da Comuni e Regioni

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La sede è al quarto piano di un bel palazzo che si affaccia su via Etnea, la strada principale di Catania. C’è un corridoio lungo il quale si aprono una, due, tre, quattro porte che nascondono uffici vuoti, scaffali privi di carte. Dentro una delle stanze ronza un ventilatore preso in prestito. Eccola qui, la tolda di comando dell’Arsea, l’agenzia regionale creata nel 2006 con un finanziamento di 35 milioni per agevolare l’erogazione di contributi agli agricoltori, ma che non ha mai esaminato una pratica. Eppure, fino a qualche giorno fa, a sovrintendere a quelle scrivanie senza computer e a coordinare i tre impiegati a foglio paga c’era un direttore generale con uno stipendio di 170 mila euro l’anno. Ugo Maltese, così si chiama il manager, vista «l’impossibilità  di operare» si è dimesso. Ma gli arretrati, che non ha mai percepito, li vuole lo stesso.
Un caso isolato? Non proprio. L’Agenzia che non esiste è solo uno degli spettri che si aggirano nel vasto mondo delle società  controllate o partecipate dagli enti locali italiani. Sono spa, srl, consorzi e, secondo una ricerca sui costi della politica condotta dalla Uil, circa 500 non svolgono alcuna attività . Sono, appunto, fantasmi che danno un tocco di brivido alla lunga teoria di enti le cui azioni sono in mano a Regioni, Province, Comuni. I numeri sono da sopravvissuti del socialismo reale. I ricercatori della Uil e dell’Unione province che si sono messi a contarle hanno scoperto che le società  controllate o partecipate dagli enti locali sono 7 mila. E garantiscono la sopravvivenza di una casta meno appariscente, ma perfino più costosa di quella dei politici di prima fila.
Ottantamila persone, in tutta Italia, prendono un gettone o un’indennità  per sedere nei cda, nei collegi sindacali, o per svolgere una consulenza a favore di questa miriade di aziende pubbliche. E per finanziare questa casta minore se ne va un fiume di denaro: 2,5 miliardi l’anno è il costo di compensi e benefit che spettano agli amministratori delle spa pubbliche. Ma cosa è successo in questi anni nei Comuni e negli altri enti italiani pur falcidiati dai tagli ai trasferimenti? Come è montata l’ansia degli amministratori di trasformarsi in spregiudicati businessmen che investono nei settori più disparati? E quanto finisce nelle tasche dei “fedelissimi” chiamati a gestire queste imprese fondate coi soldi dei contribuenti?
L’ARMATA DEL GETTONE
Gli anni del boom sono quelli che vanno dal 2006 al 2008. In quel periodo, stima la Corte dei conti, le società  controllate o partecipate dagli enti locali sono cresciute dell’11 per cento. L’ultimo conteggio si è fermato a quota settemila. Le poltrone, invece, sono molte di più. A conti fatti i componenti dei consigli d’amministrazione sono 24.310. E pesano su ciascun contribuente italiano 63 euro all’anno. La tassa, in realtà , è molto più pesante: perché alla pletora di membri dei cda vanno aggiunti i componenti dei collegi sindacali o dei comitati di sorveglianza (tre o cinque) e coloro che hanno consulenze o svolgono incarichi professionali per conto di queste spa in mano pubblica. Quella cifra iniziale, insomma, secondo le stime più prudenti, va almeno triplicata. Così, alla fine, l’armata del gettone finisce per mettere insieme 80 mila soldati. «Il dato sorprendente – dice Luigi Veltro uno degli autori della ricerca sui costi della politica fatta dalla Uil – è che per quanto riguarda il numero di poltrone gli enti locali del Sud sono più virtuosi di quelli del resto d’Italia. Il rapporto si inverte, però, quando si parla dei costi di gestione delle società . In questo caso le controllate da enti locali del Meridione determinano una spesa di tre o quattro volte superiore alle altre». Il motivo è presto detto: sui bilanci delle spa pubbliche da Roma in giù pesano soprattutto le assunzioni di personale, quasi sempre senza concorso e molto spesso riservate a portatori di voti e parenti eccellenti.
PARENTOPOLI SPA
L’ultimo scandalo, all’ombra del Vesuvio, è esploso con il ritrovamento di un “pizzino” nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per la raccolta di rifiuti. In un foglio finito sotto la lente della Procura nomi di gente da assumere all’Asìa, la municipalizzata napoletana che si occupa dell’igiene ambientale, oppure nelle ditte subappaltatrici. Accanto a ogni nome la potenziale “dote” di consensi elettorali che ciascuna persona segnalata sarebbe stata in grado di portare. Il simbolo dell’inchiesta è diventata la “teste” Kaori, assunta per 1.300 euro al mese in una delle società  che riceveva le commesse da Asìa. La donna ha raccontato di aver preso lo stipendio senza dover nemmeno andare in ufficio. È l’ennesimo coperchio sollevato sul pentolone nel quale, in tutto il Paese, prolifica la clientela basata sullo scambio fra appoggio elettorale e posto di lavoro. Con tutto quello che ne consegue. L’Asìa di Napoli, ad esempio, ha in organico ben 2.440 dipendenti e tra questi, secondo la stessa azienda, 400 “inadatti” a svolgere il lavori di raccolta. A Palermo i numeri sono ancora più impressionanti: l’Amia, la locale azienda per la raccolta dei rifiuti, e le sue controllate pagano uno stipendio a 2.810 dipendenti. In pratica, nel capoluogo siciliano c’è un addetto alla pulizia ogni 259 abitanti, contro la media di uno ogni 577 di Torino e uno ogni 366 di Genova. Ma a Palermo (come a Napoli) l’emergenza immondizia è sempre in cima all’agenda degli amministratori. Il fatto è che da quando la legge ha trasformato le municipalizzate in società  per azioni è caduto pure l’ultimo baluardo: il pubblico concorso. Adesso all’Amia e nelle aziende “sorelle” si assume per chiamata diretta. E gli effetti si vedono. Gli organici sono pieni di parenti eccellenti: negli ultimi anni sono stati assunti la moglie di un ex assessore al Personale, il genero dell’ex coordinatore regionale di An, la cognata di un ex vicesindaco, figli di consiglieri comunali e di sindacalisti. Anche le parentopoli hanno contribuito a creare il deficit che ha costretto i vertici dell’Amia a portare i libri in tribunale. E il governo a staccare un assegno di 80 milioni di euro per salvare poltrona e faccia del sindaco di Palermo, Diego Cammarata. Asìa e Amia: aziende con numeri da record. Ma da primato sono anche i casi delle spa che nascono e si alimentano con soldi pubblici pur rimanendo inattive.
QUESTI FANTASMI
L’Arsea di Catania è solo la capofila. A Catanzaro, per esempio, si parla da anni di un ente che avrebbe dovuto far diventare la Calabria «baricentro nazionale dello sviluppo dei processi e dei prodotti delle costruzioni». Questo l’obiettivo posto nell’accordo di programma che nel 2005 trasferì da Bologna alla città  calabra il «Centro tipologico nazionale», struttura a metà  fra la ricerca e l’assistenza tecnica nel settore dell’edilizia pubblica e residenziale. Peccato però che, a sei anni dalla costituzione della società  della quale fanno parte Stato, Regione Calabria, Comune e Provincia di Catanzaro, l’attività  del centro non sia ancora iniziata. Eppure, c’è una sede e c’è un consiglio di amministrazione con 5 componenti che si riuniscono a vuoto da ben sei anni. «Ma non abbiamo mai percepito indennità  – si affretta a spiegare Giovanni Carpanzano, uno dei consiglieri di amministrazione – e mi creda entro fine settembre finalmente cominceremo la nostra attività ». In attesa che la società  fantasma esca dalle tenebre della sua mission aziendale, però, le spese corrono. Fino a qualche settimana fa per gli uffici della spa che non c’è veniva pagato un regolare affitto. Per il centro tipologico che non c’è finora sono stati spesi 200 mila euro.
A Latina, invece, hanno inseguito il miraggio di una stazione termale per anni. Il Comune ha perfino costituito una società , la Terme di Fogliano, di cui detiene l’85 per cento del pacchetto azionario. L’acqua l’hanno dovuta cercare, trivellando il suolo. Ma invano. La ditta che ha eseguito i lavori adesso chiede un corrispettivo di 6 milioni 181 mila euro. Il buco vero, a Latina, l’hanno scavato nei bilanci: la Terme di Fogliano è costata sinora sette milioni 356 mila euro. E’ in liquidazione da sette anni: il commissario ha una parcella da 27.845 euro, il Comune stanzia ogni anno una quota fissa di 532 mila euro per gli accantonamenti necessari a far fronte agli “interessi moratori”. E, nonostante tutto, il 5 luglio scorso sul sito del Comune è comparso un bando per la selezione del direttore minerario della società . Il compenso? Undicimila euro per sei mesi.
Fantasmi e stranezze. Solo il 34 per cento delle società  in mano agli enti locali – è una rilevazione della Corte dei conti – operano in settori tradizionali: igiene ambientale, idrico, trasporti, energia, gas. Cosa c’è nel restante 66 per cento? Un po’ di tutto. Enti che gestiscono teatri, cineteche, persino campeggi: il Comune di Jesolo, per dire, ha una quota nella proprietà  del “Camping international”.
VOGLIA DI VOLARE
Una passione degli amministratori locali sembra essere quella del volo. Sparse lungo la Penisola si contano 15 società  che gestiscono aeroporti di rilevanza non esattamente strategica e che spesso finiscono per ospitare arrivi e partenze di vip e amatori. A Pavullo nel Frignano, Comune di 17 mila abitanti in provincia di Modena, la fregola della partecipazione azionaria ha indotto i governanti a costituire ben 12 società : una ogni 1.416 abitanti. Tra queste spicca la “Aeroporto di Pavullo srl” che accoglie una scuola per piloti di aliante. Il presidente della società  non prende gettoni ma la gestione dell’aeroclub comunale pesa 78.245 euro sul bilancio del piccolo municipio. In Liguria c’è l’aeroporto di Luni, a due passi da Sarzana: anche questo è una pista che ospita prevalentemente voli privati ma nel quale la Provincia di La Spezia ha una partecipazione attraverso una delle sue controllate. Niente a che vedere con l’importanza dell’aeroporto di Albenga, che all’ex ministro Scajola tornava utile per le sue trasferte romane. La Provincia di Savona ne controlla il 39,95 per cento. La società  ha 7 dipendenti, un cda di cinque persone e nel bilancio del 2010 ha fatto segnare una perdita di 378 mila euro, nonostante una ricapitalizzazione di 600 mila euro fatta nell’agosto 2010. Perché questa è anche la storia di potenti che usano le spa come giocattoli: in Sicilia l’ex governatore Totò Cuffaro teneva tanto all’aeroporto nella sua Agrigento. “Aeroporto della Valle dei Templi”, si sarebbe dovuto chiamare. Per realizzare lo scalo Comune e Provincia costituirono nel ’95 una società  tenuta in piedi per 13 anni: il mesto bilancio, alla fine, è stato di 2,5 milioni di euro andati in fumo per gettoni ai consiglieri di amministrazioni, incarichi e progetti puntualmente bocciati dall’Enac. Ma per una società  inutile finalmente smantellata, tante restano in piedi. Cosa fanno? perché è difficile liberarsene?
DURI A MORIRE
Se non è un record, poco ci manca: trentunesimo commissariamento consecutivo. Così prosegue l’agonia dell’ultimo carrozzone meridionale: l’Eipli, acronimo che sta per ente per l’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Campania. Un residuato post-bellico, una struttura nata nel 1947 che a più riprese il governo ha annunciato di voler smantellare. L’ennesima proroga al liquidatore scade a fine anno. Peccato che nel frattempo sia nata un’altra società , che dovrebbe svolgere le stesse funzioni: è di proprietà  della Regione Basilicata, ma anche la Puglia, a gennaio, ha deciso di entrare nel capitale azionario. Il problema è che nessuno si vuole accollare il maxi-debito contratto in quasi 65 anni di attività  dell’Eipli: 250 milioni. E così la società  “gemella”, la Acqua spa, rimane in perenne attesa del trasferimento delle funzioni. Esiste, ma è priva della principale mission che, sulla carta, gli è stata attribuita. E rimangono in attesa anche gli organi direttivi regolarmente in carica, fra cui il presidente Antonio Triani, un ex esponente dell’Udeur vicino a Clemente Mastella, che percepisce uno stipendio di 5.300 euro lordi mensili.
La vicenda dell’Eipli è quella di uno dei pachidermi che schiacciano i bilanci degli enti locali e che nessuno riesce ad abbattere. E la trama di questo film, che comincia a Catania, ci riporta infine in Sicilia. In altre stanze vuote. A Palermo fa tristezza aggirarsi per i locali spogli di quella che fu la Fiera del Mediterraneo, inaugurata negli anni Sessanta da Gronchi e oggi priva persino dei soldi per organizzare una sfilata di abiti da sposa. La Fiera è affondata sotto un macigno di debiti (18 milioni) mentre la Corte dei conti rimproverava agli amministratori spese esilaranti come quelle per l’autoblù «con televisore e telefono al bracciolo» e per i soggiorni «senza ragioni istituzionali» al Plaza di New York o al Metropol di Mosca. I 35 dipendenti dell’ente partecipato dalla Regione Siciliana, oggi, si commuovono davanti alle telecamere pensando ai tempi che furono. Costretti, loro malgrado, a ricevere uno stipendio ogni mese per non svolgere alcuna mansione.


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