L’America dice addio alle sue dighe “Sono care e dannose per l’ambiente”

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NEW YORK – La tribù Klallam è in festa da una settimana per “la rivincita del salmone selvatico, animale sacro”. Il culmine delle celebrazioni è stato il grande botto di dinamite che ieri ha polverizzato in una nuvola di detriti la diga sul Basso Elwha, un fiume nello Stato di Washington. «Il ripristino del corso naturale – dichiara il ministro dell’Interno Ken Salazar – segna l’inizio di una nuova èra, nelle relazioni fra i nostri fiumi e le comunità  che vivono sulle loro rive». La diga del Basso Elwha, una muraglia alta 35 metri, è solo l’ultima a cadere sotto i colpi di una nuova tendenza, che sta cancellando dal paesaggio americano uno dei tratti distintivi del XX secolo.
La demolizione delle dighe è stata invocata a lungo dagli ambientalisti, che le considerano uno stupro del paesaggio. L’alleato naturale in questa campagna sono gli indigeni d’America, discendenti di tribù indiane che hanno conservato tradizioni ancestrali di rispetto per la natura. Più di recente gli scienziati esperti di climatologia, geografia e geologia hanno sposato una tesi “revisionista”: lungi dal regolare i fiumi, le dighe spesso accentuano le piene e le inondazioni, mentre un ritorno al flusso naturale consente di ridurre le calamità . Perfino la destra ha finito per piegarsi, per una ragione prosaica: mantenere le dighe costa caro, in una fase di alti deficit pubblici; mentre abbatterle significa resuscitare il business della pesca e del turismo.
Risultato: l’America ha demolito 925 dighe, la maggior parte delle quali in questi ultimi quattro anni. Un numero già  enorme ma destinato ad aumentare rapidamente, perché il totale delle dighe sul territorio Usa si aggira intorno alle ottantamila. La maggioranza delle quali furono costruite più di mezzo secolo fa e si avvicinano alla loro “data di scadenza” in base alle normative di sicurezza.
L’inversione di tendenza è impressionante, perché le dighe sono state un simbolo della “conquista del territorio” da parte dei coloni bianchi, e nel XX secolo un motore della modernizzazione: dalle fabbriche tessili alle cartiere, nel primo Novecento molte aree della East Coast e del Midwest videro fiorire il loro primo boom industriale proprio lungo i fiumi e in prossimità  delle dighe che generavano energia elettrica. Fino alla seconda guerra mondiale le centrali idroelettriche alimentate da dighe hanno fornito il 40% di tutta la corrente degli Stati Uniti.
L’impulso più vigoroso alla costruzione delle dighe venne nella Grande Depressione, proprio quel periodo storico che oggi gli americani “riscoprono” loro malgrado, per le analogie con la crisi attuale. Per trainare l’economia Usa fuori dalla Depressione, negli anni Trenta il presidente Franklin Delano Roosevelt lanciò con il New Deal un imponente programma di lavori pubblici. Le dighe erano al primo posto fra le infrastrutture costruite in quel periodo e alcune sono entrate nella leggenda. È il caso della Hoover Dam, nel Black Canyon del fiume Colorado a 40 km a sud di Las Vegas: venne inaugurata il 30 settembre 1935 da Roosevelt che ebbe l’eleganza di dedicarla al suo disgraziato predecessore (perché i fondi erano stati stanziati quando era presidente Herbert Hoover, quello del crac del ‘29). Per il paesaggio spettacolare lungo la statale US-93 la Hoover Dam è rimasta un’attrazione turistica fino ai nostri giorni. Ancora più importante fu l’esperimento della Tennessee Valley Authority, istituita nel 1933 per aiutare una delle zone più colpite dalla Depressione: quell’ente pubblico costruì 50 dighe e 12 centrali idroelettriche, divenne un modello di pianificazione statale del territorio, copiato dopo la seconda guerra mondiale in molti paesi emergenti.
Può stupire la retromarcia di oggi proprio quando l’energia idroelettrica consente di ridurre le emissioni di anidride carbonica. In realtà  la National Hyrdopower Association aumenterà  del 66% la produzione di energia nei prossimi 15 anni, concentrandola nelle grandi dighe più nuove e più efficienti. Già  ora il grosso dell’idro-energia viene dal 3% delle dighe. In quanto alle altre, possono seguire il destino della Elhwa Dam e restituire l’acqua ai suoi proprietari. «Anticamente ci chiamavamo il popolo salmone – dice Robert Elofson della tribù Klallam – perché per noi il pesce aveva pari dignità  con la specie umana. Su questo fiume i salmoni erano scesi da 400mila a tremila, ora possono riconquistarlo».


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