La primavera nascosta di Teheran

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TEHERAN. Teheran è diventata una città  muta, da rumorosa e assordante che era. Nei taxi collettivi, termometro affidabile degli umori dei cittadini, la gente tace. Dalle automobili non esce più musica a tutto volume, e dalle case quella delle band iraniane che mischiano rock e musica tradizionale. «Questo silenzio non è il risultato dei divieti. È che tutti sono troppo depressi per aver voglia di sentir musica» dice Soheila, un’amica. I divieti non hanno cambiato le abitudini. Le ragazze continuano ad andare in giro nelle loro giacchettine attillate, strette quest’anno dalle cinture, e i ragazzi esibiscono pettinature tutte gel e ciuffi ritti sulla testa. Le parabole, che permettono l’ascolto delle tv estere, vengono confiscate e subito dopo ricomprate. Sulla via Shariati gli inquilini di uno stabile discutono chi di loro abbia aperto la porta del palazzo ai poliziotti, che sul marciapiede esibiscono una decina di parabole raccolte sui tetti dello stabile. Anche i gruppi che suonavano negli scantinati sono partiti, dice Soheila: chi per la Germania, chi per gli Stati Uniti. Lei quest’anno ha rinunciato al lavoro in uno studio di architettura: per chi non sa immaginare un futuro, dice, tutto diventa indifferente.
Davanti ai consolati occidentali – che fanno in modo di non rendere le file troppo visibili – ci sono fin dalla mattina presto studenti in attesa di visto. Ai corsi d’italiano per adulti, nella scuola italiana di Teheran, studiano circa 2000 studenti. Amore per la lingua italiana? Anche. Ma soprattutto la speranza di un visto per l’Italia, dove possibilmente rimanere (anche se le borse di studio che il governo italiano concedeva sono state tagliate da quest’anno) o da dove proseguire per altre destinazioni.
L’Iran è il paese con il più massiccio esodo di cervelli al mondo. Ogni anno quasi 300.000 giovani laureati se ne vanno. Il tasso ufficiale di disoccupazione è del 16, ma quello reale secondo gli economisti del 30 per cento.
L’altra ragione del silenzio, sottolinea Soheila, è che tutti sono affannati a far quadrare i conti, pagare le bollette, le tasse scolastiche. File interminabili di macchine si formano ai distributori di gas liquido perché il gas costa molto meno della benzina, aumentata del 500 per cento in un mese (sessanta litri al mese restano a prezzi calmierati), ma i distributori mancano. Ahmadinejad ha scommesso tutto sulla riforma economica, che ha abolito i sussidi su carburante e energia. Ma nelle grandi città  i 30 euro al mese a persona non compensano l’inflazione che è salita alle stelle. Nelle campagne invece, dove 30 euro equivalgono quasi al salario di una settimana, il presidente si è guadagnato un posto nel cuore dei poveri. «Ho quattro figli, due senza lavoro, uno che va ancora a scuola e il maggiore che guadagna 200 euro al mese. 180 euro mi permettono di respirare» mi ha detto un uomo che scaricava tappeti da un camioncino nel bazar di Rasht, sul Caspio.
Il problema è che il risparmio per lo Stato che doveva venire dalla riforma e doveva essere destinato a investimenti, non c’è stato. Cifre alla mano, la Corte dei Conti dice che lo Stato anzi spende di più di quanto non spendesse per i sussidi.
«Sarà  l’economia a decidere del futuro di Ahmadinejad» dice un economista alla festa nazionale dell’ambasciata tedesca. «Per il leader Khamenei la linea rossa è quella». In perfetto persiano l’ambasciatore tedesco cita la lettera che Goethe scrisse al suo editore nel 1815 per illustrargli che cosa l’avesse spinto a scrivere il Diwan, la grande raccolta di liriche ispirate alla poesia persiana. «La mia intenzione è collegare l’Occidente e l’Oriente, il presente e il passato, il persiano e il tedesco e lasciare che gli usi e le mentalità  si intersechino». Nonostante le sanzioni, l’interscambio iraniano-tedesco resta significativo, il primo in occidente. «La Germania mantiene un equilibro tra il dire e il fare» dice il nostro interlocutore: «La Francia minaccia ma fa affari, mentre l’Italia arretra, eclissata da un’interpretazione estensiva delle sanzioni: tra poco non esporterà  più nemmeno scarpe da tennis, non solo i prodotti “dual use” (vietati perché potrebbero essere utilizzati per l’arma atomica)».
La questione delle sanzioni divide gli esperti. Funzionano? Non funzionano? Secondo gli europei (meno la Gran Bretagna) finora le sanzioni hanno danneggiato tutto quello che di moderato c’era in Iran a livello economico e politico, e hanno mandato in rovina il settore privato permettendo così ai pasdaran di espandere la loro forza economica. Senza cambiare il comportamento del governo. Le nuove sanzioni che si preparano a Washington non daranno risultati diversi. Il prezzo del petrolio schizzerà  ancora più in alto, mentre basterebbe un minimo allentamento della tensione a farlo calare di almeno 8 dollari al barile (cosa che significherebbe 8 miliardi di dollari in meno nelle casse dello Stato iraniano).
Incontro vecchi amici e nuove conoscenze. Uno è tornato nel mondo da poco, in un piccolo ufficio su una strada appartata cerca di ritrovare una vita normale. Non è facile, perché la sua scarcerazione è provvisoria, definitiva lo diventa solo per chi “confessa”. Era stato un politico riformatore conosciuto, fu arrestato nel giugno 2009 – il giorno stesso delle elezioni. Un arresto preventivo, per così dire. I primi quattro mesi li aveva passati in totale isolamento, in un stanzino «grande quanto questa tavola».
Un altro ha salito molte scale del potere. L’avevo conosciuto giornalista squattrinato e sottoccupato, ma capace di prevedere fino ai decimali dei risultati elettorali che nessuno si aspettava. Dall’agenzia Mehr all’agenzia Fars, seguendo sempre più da vicino il presidente Ahmadinejad, ora è approdato all’Young Journalist Club, una agenzia politica che ha la sede in una palazzina accanto all’Irib, la televisione di Stato, a cui fornisce il materiale. In Iran le cose funzionano spesso così: accanto all’istituzione prevista dalla legge ne viene creata un’altra che la controlla o ne condivide il potere. E a chi faccia capo la seconda nessuno esattamente lo sa.
Un terzo viene a fare una chiacchierata in albergo. È benevolo, informatissimo, competente, ironico. Parla sempre al plurale, “noi”. Chi intende con noi?. «Ahmadinejad dice io quando parla di un errore, noi quando parla di una cosa importante che ha fatto: intende il popolo iraniano», risponde. Si concede una battuta quando il suo accompagnatore ci fissa un appuntamento per l’indomani: «Noi ci rivediamo alle dieci», dice l’accompagnatore e l’altro caustico: «Noi chi?».
Dalle montagne dell’Alborz arrivai un venticello autunnale. L’estate ormai è finita ma la primavera non c’è stata. Quella politica, che molti aspettavano, dopo Tunisi, il Cairo, la Libia. Ma a Teheran tutto è tranquillo. Le prigioni sono piene. Il numero delle esecuzioni ha raggiunto livelli record. I leader dell’opposizione sono agli arresti domiciliari. Qualche protesta, raramente, si leva negli stadi, il solo luogo dove masse di giovani possano raccogliersi senza insospettire le autorità : la più recente, contro il prosciugamento del grande lago salato Orumiyeh, provocato dalla costruzione di dighe inutili, costruite perché qualcuno voleva guadagnarci sopra.
«Il mio è il governo meno corrotto che l’Iran abbia avuto» si è vantato Ahmadinejad a New York. Ma non aveva fatto in tempo a dirlo che i suoi nemici (ne ha sempre di più numerosi tra i conservatori che l’avevano appoggiato alle elezioni) hanno portato alla luce lo scandalo finanziario più clamoroso della storia della Repubblica islamica: una frode bancaria di quasi 3 miliardi di dollari, pari all’uno per cento del prodotto interno lordo. Nelle tre banche coinvolte, due direttori sono stati licenziati, il terzo, della Banca Melli, si è dimesso riconoscendo le proprie responsabilità  e il giorno dopo è filato in Canada. «Una pugnalata alle spalle» ha detto il presidente. La lotta all’interno del regime è diventata febbrile in vista delle elezioni parlamentari a marzo. Ahmadinejad vorrebbe crearsi in parlamento una base che gli permetta poi, alle presidenziali del 2013, quando non potrà  più candidarsi per un terzo mandato, di candidare alla presidenza un suo uomo; ma il Leader Khamenei è deciso ad impedirglielo. Le elezioni qui servono a misurare il peso di ciascuna fazione politica rispetto alle altre, ma oggi il vero problema è come riportare la gente a votare. Le elezioni del 2009 hanno ucciso qualsiasi fiducia residua dei cittadini nel valore del voto.
La settimana scorsa il Young Journalist Club è stato il primo a dare la notizia dell’arresto di sei documentaristi accusati di collaborare con la Bbc. Dopo i politici riformatori e i giornalisti tocca alla gente del cinema essere presa di mira con l’accusa di collaborare «con l’impero mediatico del nemico». Attori sono in carcere, ad altri è stato tolto il passaporto, altri ancora sono già  stati convocati in tribunale.


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