La ricetta sbagliata per salvare l’europa

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Nel week-end si terrà  l’ennesimo vertice per l’ennesimo piano salva euro, salva Stati, e salva banche: che questa volta, però, si dice sarà  risolutivo. Così le aspettative per il piano hanno spinto al rialzo le Borse, dal baratro in cui erano crollate 15 giorni fa. C’è da scommettere che il risultato, a prescindere da modalità  e forme, sarà  l’impegno di Francia e Germania a farsi carico di tutti gli oneri: dalla ricapitalizzazione delle banche al sostegno degli Stati in crisi, aprendo i rubinetti dei loro bilanci, del Fondo di Stabilità  (Efsf), e della Bce. L’alternativa, la balcanizzazione dell’Eurozona, sarebbe per loro molto più costosa: così ragiona la Borsa.
Ma a guardare le varie versioni del piano in discussione, è chiaro che si vuole risolvere un problema di eccessivo indebitamento con nuovo debito; e usare la finanza per risolvere disequilibri reali. Poco lungimirante.
La necessità  di un piano è diventata impellente quando ci si è resi conto che il taglio del 20% del valore del vecchio debito greco da imporre ai creditori, previsto a luglio, è insufficiente; ora si parla di 50%-60%. Quindi è necessario usare soldi pubblici per attenuare l’impatto delle maggiori perdite sul capitale delle banche, specialmente francesi e tedesche. Si ammette finalmente che quella greca era crisi di insolvenza, non di liquidità , come ci hanno raccontato per due anni. Si dà  anche per scontato che la Grecia sopravviva al default, comunque lo si chiami, senza imporre restrizioni ai movimenti di capitale e senza svalutare, anche se nella storia non è mai successo.
Il sistema bancario europeo è in crisi: le banche non espandono il credito, non fanno utili, hanno difficoltà  a finanziarsi sul mercato, non si fidano una dell’altra, e il sistema è tenuto in piedi dalla Bce. Per il piano, il problema è il troppo debito di Stati in crisi detenuto dalle banche. La soluzione: imporre la svalutazione dei titoli di stato ai prezzi di mercato e aumenti di capitale per assorbire le perdite, fornendo fondi pubblici e dello Efsf alle banche che non ce la facessero da sole. Ma restano gli incentivi a investire in debito pubblico. I coefficienti di capitale sono infatti rapportati alle attività  aggiustate per il rischio, e i titoli di Stato sono considerati privi di rischio: così convengono perché fanno risparmiare capitale. E i finanziamenti a pioggia della Bce a tassi agevolati, investiti in debito pubblico, permettono profitti facili. Il piano sancisce che le banche sono sottocapitalizzate: ma gli stress test avevano stabilito il contrario. Secondo quei test, Dexia era tra le più solide: oggi è stata nazionalizzata perché insolvente. Credibilità  cercasi disperatamente.
Oltre alle banche, c’è da finanziare la ristrutturazione della Grecia, e comperare debito di Italia, Spagna e Portogallo, per permettere loro di finanziarsi a costi sostenibili. Chi paga? Secondo il piano, lo Efsf. Ma ha solo 440 miliardi. La metà  li mette la Germania; ma dopo questi, difficile che il suo Parlamento ne autorizzi altri. C’è poi l’opposizione di Finlandia, Austria e Olanda. La soluzione del piano è usare la leva. I francesi vorrebbero che la Efsf si finanziasse presso la Bce: ma tanto vale che sia la Bce a finanziare tutti direttamente. La Germania vuole usare il capitale della Efsf per garantire il primo 20% delle perdite sui titoli di stato: ma è lo stesso schema usato nelle cartolarizzazioni dei mutui subprime, col l’Efsf nel ruolo di hedge fund che investe nel titolo che assorbe tutto il rischio di perdita. Spagna e Italia, poi, partecipano a garantire il capitale dello Efsf, che garantisce il loro debito.
Questo piano sembra agire sui sintomi della crisi, senza risolverne le cause: risanare le finanze pubbliche di tanti paesi in crisi (ai quali potrebbe aggiungersi la Francia, visti i costi del piano); e aggiustare il loro disavanzo esterno, con il quale, negli anni dell’euro, hanno finanziato allegramente la spesa pubblica (Italia), quella privata (Spagna), o entrambe (Grecia).


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