Tunisia, prove di democrazia islamica

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Se non fosse islamica osservante, Fawzia brinderebbe volentieri. Senza alcol, si accontenta del suo tè alla menta a un tavolino di avenue Bourghiba, come altre decine di studenti tunisini. «Ennahda vuol dire rinascita. Ci speriamo, crediamo che la Tunisia possa completare la sua rivoluzione, rinascere davvero». Studentessa di Lingue, sembra un simbolo perfetto per il suo paese: usa allo stesso tempo il velo e i jeans attillati, sogna di lavorare con successo, non vuol nemmeno pensare di restare chiusa in casa, ma non rinuncia alla fede. «Sì, mi sento musulmana. È la mia identità , non capisco come voi europei possiate rinunciare a Dio».
Attorno a lei, nel traffico forsennato della capitale, i clacson dei sostenitori del partito islamico si mescolano a quelli dell’ora di punta, quasi con timidezza. Con i primi risultati elettorali che ormai delineano la vittoria di Ennahda per la nuova assemblea costituente, il regime dispotico di Zine el Abidine Ben Alì sembra finalmente archiviato, dopo 23 anni di corruzione e paura.
Ma forse sono gli stessi sostenitori della formazione di Rachid Gannouchi a tirare un sospiro di sollievo, vedendo che la vittoria non è un trionfo. Ieri sera i dati davano il partito al comando in cinque distretti, compreso Sfax (il che valeva 15 seggi), il voto dei tunisini all’estero ne aveva procurati altri nove, mentre il Congresso per la Repubblica faticava al secondo posto, seguito dalla sinistra di Ettakatol e dai democratici progressisti. Il gruppo dirigente, in via informale, dava per sicura una percentuale del 40 per cento, forse 45: più o meno il triplo rispetto ai due partiti laici. Dati significativi, visto che Ennhada era l’unica formazione a presidiare praticamente tutti i seggi del paese. Con i due laici, il CpR dell’ex esule Moncef Marzouki e con Ettakatol, Ennhada dovrà  formare una coalizione, tanto più che le urne sembrano aver punito chi aveva escluso un’alleanza con gli islamici. Marzouki ha subito aperto ai vincitori: «Abbiamo ottimi rapporti con tutti e vogliamo un governo di coalizione. Non vedo il pericolo di una deriva integralista. La nostra è una società  molto europea, penso che nemmeno la stragrande maggioranza degli islamici accetterebbe la sharia intesa in senso radicale come fonte del diritto». Anche Yusra Gannouchi, figlia del leader filo islamico, rassicura: «Le donne tunisine non hanno niente da temere, il codice di Bourghiba non sarà  cambiato, non abbiamo certo intenzione di introdurre la poligamia». Abdelhamid Jlazzi, capo della campagna elettorale di Ennhada, sottolinea che «non ci saranno strappi. Siamo arrivato al potere con la democrazia, non con i carri armati. Dopo la sofferenza, abbiamo l’opportunità  di assaporare libertà  e democrazia».
Ma i militanti festeggiavano con prudenza, convinti forse che un eccesso di vittoria rischiasse di apparire minaccioso. Il vertice del partito aveva fatto di tutto per rassicurare i laici, l’opinione pubblica occidentale, gli investitori stranieri garantendo le sue scelte moderate, e ha subito annunciato che nella Costituente formerà  una maggioranza con due partiti laici. Ma le voci sui finanziamenti arrivati dall’Arabia saudita e dal Qatar hanno lasciato vivo il sospetto.
«Lo sanno tutti che Ennahda prende i soldi da Riad», dice Ahmed Ibrahim, fondatore della coalizione liberale Democratica-Modernista. Replica Said Ferjani, della direzione: «Ennahda è un fenomeno sociale, prima che un partito». L’identità  musulmana sembra aver deluso chi sperava di capitalizzare politicamente l’entusiasmo dei ragazzi che a inizio anno in piazza della Kasbah gridavano «Dégage, dégage», cioè sgombra, al dittatore. Invece la mobilitazione per i profughi in fuga dalla Libia, all’inizio senza nessun coordinamento, è finita sotto l’ala delle organizzazioni islamiche, per poi confluire nei consensi a Ennhada.
Insomma, la società  civile tunisina protagonista della rivoluzione dei gelsomini è legata strettamente con la tradizione islamica. «Una separazione netta fra Stato e religione ispirata al modello francese non è adatta per la società  tunisina. La religione non può essere un fatto privato perché significherebbe lasciar spazio alla spinta radicale dei salafiti. Lo Stato invece deve farsi carico dell’educazione, dell’insegnamento religioso e della convivenza fra le diverse anime del paese», ammette tranquillamente Ayachi Hammami, dirigente della Lega tunisina per i diritti dell’uomo, militante del polo modernista.
Per le cancellerie occidentali, che seguivano con attenzione la campagna elettorale e il voto, sembra essenziale che Ennhada non stia stravincendo: questo garantirebbe all’interno del partito islamico la prevalenza dei moderati e filo occidentali. Ma sembrano ormai poco plausibili i due scenari più negativi, quello che voleva la Tunisia pronta a diventare un nuovo Iran affacciato sul Mediterraneo e quello, parallelo, che ipotizzava la possibilità  di un colpo di Stato militare sul modello algerino.


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