Le vie d’uscita di Berlino (e Parigi) dalla crisi del debito

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PARIGI. Andare verso l’istituzionalizzazione di un’Europa a due velocità , anche al prezzo di costituire un nocciolo duro di una parte dei paesi della zona euro, espellendo chi non ci sta o non ce la fa? Continuare con le pressioni sui paesi deboli, Italia in testa, per rimetterli sulla retta via a ritmo accelerato? Aprire delle linee di credito di «precauzione» per i paesi più in crisi, in cambio di impegni draconiani di risanamento delle finanze pubbliche? Chiamare in aiuto l’Fmi, perché si sostituisca ai paesi che non hanno (o avranno) più accesso ai mercati per pagare i tassi di interesse sul debito pregresso? Trasferire in una struttura ad hoc la parte del debito che oltrepassa il parametro di Maastricht del 60% del pil, come propongono i «saggi» tedeschi, considerati iconoclasti dalla cancelliera? Oppure, scegliere la strada, proposta dalla Francia ma invisa alla Germania, di trasformare la Bce in una vera banca centrale, come la Fed o la Bank of England, garante in ultima istanza di tutto il debito?
L’Unione europea in generale e la zona euro in particolare cercano disperatamente una via d’uscita alla crisi dei debiti. La Germania ha smentito ieri di aver avviato discussioni con la Francia su un progetto di ridefinizione della zona euro attorno a un nucleo di paesi che intendono integrare le rispettive politiche economiche e fiscali. Questa ipotesi, che significherebbe federalismo in una zona euro ristretta e confederazione per un’Unione europea destinata ad allargarsi (fino a 35 stati), presuppone una riforma dei Trattati: dovrebbero venir cambiate le modalità  di voto, per evitare la paralisi che deriva dal sistema, nella zona euro, di «un paese, un voto» (la zona euro è rimasta impiccata per mesi ai ritardi della Slovacchia nell’approvazione della nuova versione del Fondo europeo di stabilità  finanziaria, che era stata decisa il 21 luglio scorso e ha dovuto aspettare l’autunno il voto di Bratislava).
Secondo questa ipotesi, la zona euro così ridefinita diventerebbe più omogenea, al prezzo dell’uscita di alcuni dei 17 che ora ne fanno parte (chi non vuole, come la Slovacchia, chi non può, come la Grecia, per esempio). «Si chiamerà  euro, ma ci saranno meno paesi», dicono a Parigi, ammettendo che le discussioni, smentite da Berlino, sono in corso. Il voto all’unanimità  verrebbe sostituito da un sistema di voto ponderato, in funzione del peso economico del paese. Verrebbe creato un segretariato permanente di questa zona euro rafforzata, con sede a Bruxelles, ma separato dalla Commissione. Ci sarebbero vertici regolari tra i pochi eletti della cooperazione rafforzata, che segnerebbe la nascita di un embrione di Tesoro europeo. Verrebbe nominato un presidente permanente, che farebbe le funzioni di un super-ministro dell’economia, controllore del rispetto degli impegni. Della riforma dei trattati l’Unione europea discuterà  al prossimo Consiglio, il 9 dicembre. Nei corridoi si fa l’ipotesi di una conferenza intergovernativa già  all’inizio del 2012.
Difatti, il tempo stringe. Adesso che il «contagio» ha preso in pieno l’Italia, anche la Germania si muove per evitare che si propaghi al Belgio e, soprattutto, alla Francia. Il governo Fillon ha presentato lunedì un piano di rigore, che fa urlare i sindacati perché colpisce soprattutto le classi popolari, ma già  Bruxelles ne reclama un altro aggiuntivo. La Francia è da ottobre sotto osservazione da parte di Moody’s, che potrebbe ritirarle il rating AAA e così provocare un aumento dei tassi. Ieri, ci sono stati momenti di panico quando, «per errore», la Standard & Poor’s ha fatto circolare un messaggio che indicava il downgrading di Parigi. La Francia si aggrappa alla Germania, ma le due economie sono sempre più divergenti. Deficit superiore al 5% in Francia, debito in crescita, spread a 170. Per non parlare della disoccupazione, che in Francia sfiora ormai il 10% e dovrebbe salire ancora. La Commissione prevede un 2012 di stagnazione nella zona euro e solo un più 0,5% nel 2013 (le precedenti previsioni erano più 1,8%).
Il salto federale rischia di aprire il vaso di Pandora delle divisioni striscianti, a cominciare dalla Gran Bretagna, che non è nell’euro e rifiuta di toccare i trattati.


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