L’epoca salta, da Arcore all’Europa

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Il ventennio berlusconiano finisce nello stesso momento in cui quel che resta della sovranità  nazionale italiana viene messa al guinzaglio dalla governance europea. La talpa della religione neoliberista ha scavato di più della millantata rivoluzione liberale del mago di Arcore.
Solo un’ora prima, a colloquio in corso fra Berlusconi e Napolitano, la ridda delle ipotesi e controipotesi sulla crisi di governo ormai certificata dal voto sul rendiconto pareva avviata su più consueti binari, sia pure controllati dal semaforo della Ue e dominati dal feticismo dei mercati e dello spread. Intervistato dal Tg3 delle 19, Giuliano Ferrara raccontava che Berlusconi era salito al Colle mezz’ora prima diviso fra due diverse ipotesi, a loro volta sostenute da due diverse tifoserie. La prima, tifoseria di Ferrara medesimo e pochi altri: lanciare un appello all’opposizione per ottenerne l’appoggio in Senato sulle misure anticrisi annunciate al G20, garantendo di dimettersi subito dopo per andare risolutamente alle elezioni. La seconda, tifoserie varie Pdl e Lega, meno votate al rischio elettorale e fermamente incollate agli scranni parlamentari: fare il famoso passo a lato e adattarsi a favorire la nascita di un governo Alfano o chi per lui, con la speranza di allargare la maggioranza di quanto basta per tentare di arrivare a fine legislatura. Due alternative corrispondenti a due opposte filosofie; posta in gioco, il senso del ventennio berlusconiano da consegnare alla storia. Nel primo caso, un Berlusconi terminale ritrova il Berlusconi delle origini e sfida le urne rivendicando tutto il peso del suo ventennio, puntando i piedi sull’irreversibilità  del bipolarismo, riproponendosi – dio solo sa come – come l’unica personalità  in grado di affrontare la crisi europea senza inchinarsi più del dovuto ai relativi diktat: se funerale del berlusconismo dev’essere, che sia almeno un funerale in grande. Nel secondo caso, un Berlusconi terminale si mette la maschera del leader responsabile, garantisce i suoi passando il testimone, ma accettando di sfigurare il ventennio nel suo contrario, ovvero nel rito grigio e trito di una manovra parlamentare da prima Repubblica di sapore democristiano, esattamente ciò contro cui aveva detto di essere sceso in campo nel ’94: un funerale mestissimo e di seconda classe.
All’uscita dal Quirinale, mentre agenzie e siti italiani e stranieri battono le sue dimissioni attese in tutto il mondo, Berlusconi sa e dice che ormai le cose non sono più nelle sue mani ma in quelle di Napolitano. Non scioglie del tutto il suo dilemma, ma si dichiara nettamente a favore della prima alternativa: dopo di lui, elezioni. Dopo di lui, governo di transizione, replica un Bersani soddisfatto ma ben consapevole che Berlusconi si è dimesso ma non è scomparso, e che la situazione economica e finanziaria è «delicatissima». A misure anticrisi approvate, si apre il gran ballo delle consultazioni. L’epoca però è improvvisamente cambiata. Non si tratta più solo, né per il Cavaliere né per l’opposizione, di dare adeguata sepoltura al ventennio berlusconiano barcamenandosi fra la seconda Repubblica mai nata e la prima che può sempre tornare. Si tratta di ereditare un sistema economico e sociale massacrato e sottoposto a 39 quiz stilati nell’inglese standardizzato delle istituzioni economiche, non politiche, sovranazionali. Al funerale del berlusconismo, qualcuno si ricordi di dire che Berlusconi e Bossi non ci facevano caso, ma Arcore e la Padania stavano in Europa.


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