Addio a Và¡clav Havel il rivoluzionario di velluto

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Al commiato, al «disboscamento» pensava da tempo, oppresso dal «terribile elenco di cose che avrei dovuto fare e non ho fatto», come aveva scritto in un libro-intervista del 2007, ma sempre ironico sull’inadeguatezza umana di fronte alle piccole e grandi separazioni. Và¡clav Havel se n’è andato una domenica mattina, nella quiete della sua casa di campagna a Hradecek, a 75 anni. Con lui la moglie Dagmar, inseparabile compagna negli anni della malattia che dai passati interventi ai polmoni divorati dal tumore e all’intestino lo aveva lasciato più fragile e minuto, mai domo. I funerali dovrebbero svolgersi venerdì, da mercoledì la salma sarà  esposta nel Castello di Praga. Il drammaturgo dissidente che si ritrovò padre della Cecoslovacchia libera, il fan di Frank Zappa che da presidente portava Bill Clinton ad ascoltare il jazz ed era amico di Mick Jagger come del Dalai Lama, si definiva «un caso particolare», un’incarnazione di quel paradosso familiare all’uomo di teatro che frequenta l’assurdo e il dramma inteso come «tentativo di scoprire l’ossatura dell’esistenza». La verità  e l’amore vinceranno sull’odio e la menzogna, diceva. Nelle dediche, accanto al suo nome disegnava sempre un piccolo cuore. Un caso particolare, l’ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo leader della Repubblica Ceca, lo è stato.
Havel nasce il 5 ottobre 1936 in una famiglia borghese della Praga colta e imprenditoriale destinata a subire le persecuzioni del Partito comunista dopo il «Febbraio vittorioso», la presa di potere del 1948 che consegna il Paese all’inverno sovietico. È tempo di letture rubate e passioni clandestine, la scoperta della poesia, gli incontri con il futuro regista Milos Forman e il poeta Jaroslav Seifert (nel 1984 il primo ceco a ricevere il Nobel per la Letteratura). Si diploma al liceo serale, lavora come apprendista in un laboratorio chimico, deve rinunciare agli studi umanistici e s’iscrive alla facoltà  di Economia dei trasporti. Due anni di servizio militare, poi il teatro. Fa il tecnico di scena, studia drammaturgia per corrispondenza, conosce la «proletaria» Olga Å plà­chalovà¡, «la risposta mentale alla mia incertezza mentale, un sobrio revisore delle mie folli idee, un sostegno privato alle mie avventure pubbliche», si sposano nel 1964. Difende pubblicamente autori discriminati per posizioni anti comuniste ed entra nel cono d’attenzione del regime.
Nel gennaio 1968 Alexandr Dubcek è eletto segretario del Partito e apre la stagione di riforme. Sboccia la Primavera di Praga, «l’esito della spinta dei tentativi più disparati — spiegherà  Havel nel fondamentale saggio del 1979 Il potere dei senza potere — di un pensiero più libero, di una creazione e di una riflessione politica indipendenti; si trattò di un processo di graduale risveglio della società , di una sorta di apertura furtiva della sfera segreta». Il sogno del socialismo dal volto umano dura fino all’invasione delle truppe del Patto di Varsavia, il 20 agosto, seguita dalla stretta repressiva della «normalizzazione». Le manifestazioni operaie proseguono, il 16 gennaio 1969 il 21enne Jan Palach, studente di Filosofia, si dà  fuoco in piazza San Venceslao, la stessa dove ieri sera si sono radunati in centinaia per accendere candele in ricordo del loro presidente. Comincia la «grigia quotidianità » dei Settanta sotto Husak, Havel operaio in un birrificio, spiato e perseguitato, affina il suo sguardo tagliente sul non senso dell’«Absurdistan». Nella Lettera al segretario generale del Partito comunista denuncia la «crisi dell’identità  umana» in un sistema fondato sul terrore che annienta l’individuo, espulso dal «disordine della storia autentica» e condannato all’artificiale «ordine della pseudostoria». Nel 1977, dopo la campagna contro il processo al gruppo rock underground dei Plastic People e la fondazione di «Charta ’77», viene arrestato: per anni entra ed esce dal carcere, nelle lunghe detenzioni scrive le struggenti Lettere a Olga e contrae le bronchiti che, non curate, mineranno irreversibilmente la sua salute.
Il 1989 è l’anno della svolta per l’intero blocco sovietico. Il 9 novembre cade il muro di Berlino. In Cecoslovacchia la «Rivoluzione di velluto» manda in frantumi il regime, il 29 dicembre Havel è presidente. Apprendista stregone, sale al Castello. Rinuncia con dolore all’idea di nazione cecoslovacca cara a Masaryk e acconsente al «Divorzio di velluto» dalla Slovacchia, per diventare il primo capo del nuovo Stato ceco. Nel 1996 perde Olga e un anno dopo sposa l’attrice Dagmar Veskrnova. Durante il suo mandato si concentra soprattutto sull’allargamento a Est della Nato (l’adesione di Praga nel 1999) e sull’ingresso nella Ue, della quale pure contesta «tecnocrazia e materialismo»: l’adesione avverrà  nel 2004, presidente già  un altro Và¡clav, il rivale Klaus, che ieri ha reso omaggio al «simbolo di una nuova era».
Fumatore incallito, dotato di straordinario carisma, «curioso di ogni cosa e scandalizzato da nulla», era ostaggio di mille insicurezze, voleva che fosse «tutto in ordine per il giudizio finale», convinto del fatto che «l’Essere ha una memoria e allora anche la mia piccola vita resterà  per sempre. Non qui ma da qualche parte. Non chissà  dove, ma da qualche parte qui». Dopo un silenzio durato vent’anni, nel 2007 era tornato al teatro con Partire, poi diventato un film. La battuta finale è affidata a una voce fuori campo, la sua. «Gli spettatori possono riaccendere il telefonino. Grazie d’averlo spento. Buona notte. E fate dei bei sogni».


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