Attivisti protestano al Vertice sul clima: «Occupy Durban»

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Nel parco di fronte, c’è il presidio permanente della società  civile, con un megafono utilizzato a turno dagli attivisti arrivati dall’Africa e dagli altri continenti. Ieri mattina si sono ritrovati ancora di fronte al cancello, gridando slogan che chiedono di scegliere il futuro di tutti e non gli interessi di pochi. «Occupy Durban, Occupy Earth». Giunge così al termine la prima settimana di lavori della 17° conferenza Onu sul clima, una settimana in cui si è avanzato pochissimo nelle decisioni necessarie per non fare l’ennesimo costoso buco nell’acqua. Lunedì, nel Conference Center il presidente del Sudafrica Zuma, padrone di casa, inaugurava il vertice lanciando un monito ai paesi partecipanti, circa 190: «Per gran parte dei popoli dei paesi in via di sviluppo e del continente africano, il cambiamento climatico è una questione di vita o di morte».
Gli esempi non mancano: dalla siccità  nel Corno d’Africa e in Sudan, alla desertificazione progressiva di gran parte del territorio africano, fino alle tempeste e alluvioni che hanno spazzato nelle scorse settimane la costa sudafricana, colpendo gravemente anche la città  che ospita il summit. Zuma ha auspicato che i governi guardino oltre gli interessi nazionali alla ricerca di soluzioni che grantiscano invece «il bene comune e il benessere dell’umanità ».
Nel vivo dei negoziati, con la presenza delle delegazioni dei governi, si entrerà  solo martedì prossimo. Nessun capo di stato è atteso, ad eccezione di alcuni – pochi – leader africani. Nel frattempo, i round preparatori e le negoziazioni dei tavoli tecnici ci raccontano di posizioni distanti e di un accordo che difficilmente verrà  raggiunto:neppure sul contestato Fondo verde per il clima. A Cancun un anno fa era stato annunciato lo stanziamento di 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, ma sul finanziamento non c’è accordo. Giovedì pomeriggio la rete Climate Justice Now ha organizzato un’azione di protesta contro la Banca mondiale, che dovrebbe avere un ruolo di primo piano nella gestione del fondo.
Sono in tanti a denunciare l’inconcludenza di questi primi giorni di lavori. L’Alleanza dei Piccoli stati insulari, Aosis – i primi a rischio scomparsa con l’innalzamento dei mari, conseguente a quello delle temperature – reclama misure che contengano le emissioni entro i 350 ppm, livello massimo per garantire la sopravvivenza dei loro territori. I rappresentanti dei popoli indigeni che partecipano da osservatori al vertice ufficiale avvertono sul rischio che questa Cop seppellisca la stessa convenzione quadro, l’Unfccc, tradendone l’impostazione originale che, ricordano, «differenziava le responsabilità  e quindi gli impegni da assumere tra paesi industralizzati e paesi emergenti». Dello stesso avviso i paesi dell’Alba, Alleanza bolivariana per i popoli dell’America: «dobbiamo evitare questa prospettiva catastrofica», ha avvertito Rene Orellana, capo del gruppo negoziatore della Bolivia.
Le statistiche diffuse in questi giorni dalla società  energetica BP parlano di un aumento della Co2 di quasi il 6% rispetto ad appena due anni fa, con Cina e Russia a coprire assieme il 44% delle emissioni globali. La stessa Cina e i paesi del G77 si dicono favorevoli a cercare una via per la prosecuzione del protocollo di Kyoto. Ma un Kyoto bis è osteggiato dagli Usa, cui si sono aggiunti Canada, Russia, Giappone. «Non si rendono conto di giocare con le vite di milioni di persone» – grida al megafono Luanda, contadina africana del Lesotho arrivata a Durban per la 2° assemblea delle donne contadine dell’Africa del Sud. Un grido che si ripercuoterà  oggi, durante la Giornata globale di mobilitazione sul clima, che avrà  proprio qui a Durban il suo cuore pulsante.
* Associazione A Sud


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