Cittadinanza, di cosa parliamo

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Per piacere un po’ di calma. Si sta creando nella sinistra una sorta di partito dello ius soli. Questa è l’espressione che si sente spesso dire da chi si dichiara d’accordo con l’iniziativa del presidente Napolitano volta a favorire l’accesso alla cittadinanza italiana dei bambini, appunto italiani, figli di genitori stranieri. Non so bene cosa voglia dire al giorno d’oggi ius soli (e non so se lo sanno gli entusiasti di questa idea). Né per altro so cosa voglia dire ius sanguinis, che poi sarebbe, in linea di principio, l’opposto dello ius soli. E questa disputa ideologica e nominalistica mi disturba.
I paesi governano diversamente l’accesso alla cittadinanza giuridica cosicché alcuni, come la Francia, danno o facilitano molto l’accesso alla cittadinanza ai nati nel territorio dello stato, mentre altri non lo fanno o lo fanno di meno. Ma poi c’è in Europa una tendenza verso la convergenza che – nel bene e a volte nel male – rende più simili in Europa le norme relative all’accesso, riflettendo lo spirito dei tempi e il clima politico dei singoli paesi. Così in alcuni, attraverso modifiche costituzionali o semplici provvedimenti di legge, si estendono le possibilità  di accesso alla cittadinanza mentre in altri, come appunto la Francia, si rende sempre meno automatico il diritto accesso (e la persistenza del diritto) alla cittadinanza per i nati da stranieri.
Questa storia dello ius soli e dello ius sanguinis – termine, quest’ultimo, che effettivamente non suona bene – l’hanno messa in piedi di recente l’on. La Russa e la Lega Nord denunciando, nelle loro reazioni alle considerazioni del Presidente della Repubblica, un «rischio di passaggio in Italia allo ius soli». Passaggio che ha poco a che fare con una iniziativa volta far diventare cittadini bambini e ragazzi che sono nati o arrivati da piccoli in Italia, parlano italiano e si considerano italiani, o anche italiani.
Rispetto alla questione pratica e concreta posta dal presidente Napolitano gli xenofobi nostrani hanno alzato un polverone giuridico-ideologico, ergendosi a difensori dello ius sanguinis e chiamando in causa anche la Costituzione. E gli aderenti all’emergente partito filosofico dello ius soli sono cascati nella trappola e nella disputa ideologica. Ma i problemi sono ben altri. Ad esempio in Italia venti anni addietro – con lo ius sanguinis – era più facile di adesso per il cittadino straniero residente nel paese ottenere la cittadinanza. Infatti è stato proprio quando sono arrivati gli immigrati che si è deciso di allungare il periodo di permanenza necessario per avere la cittadinanza. Né sangue, né suolo, solo politica restrittiva.
D’altra parte giova ricordare che l’Italia è stata – e in parte è tutt’ora – un paese di emigrazione. E molti italiani parteciparono alle grandi migrazioni intraeuropee del dopoguerra – nei trenta gloriosi anni del welfare state nelle democrazie capitaliste. Se un emigrato – operaio o lavoratore edile – trasferito con famiglia o sposato con una donna locale diventava padre in Germania mandava immediatamente i suoi parenti a registrare il figlio presso l’anagrafe comunale. Non credo che questo emigrato pensasse di farlo in base allo ius sanguinis. Forse pensava semplicemente di esercitare il diritto di trasmettere la propria nazionalità  ai suoi figli anche se non nati in patria. E all’epoca erano molti i bambini che non nascevano in patria. Si trattava di qualche figlio di intellettuale residente all’estero per studio o ricerca, di qualche figlio di diplomatico e di tanti, davvero tanti, figli di proletari (spero che qualcuno ricordi la parola). Non so se quelli che ora parlano di ius soli ritengono giusto che a quei figli di proletari emigrati spettasse – o quanto meno spettasse anche – la cittadinanza italiana. Ed è proprio questo “anche” uno dei temi centrali all’ordine del giorno oggi: quello della doppia cittadinanza. Di questo si dovrebbe parlare oggi, non di sangue e suolo.
La verità  è che la complessa storia dell’accesso alla cittadinanza giuridica varia molto da paese a paese. Ed ha a che fare con la storia politica, sociale e demografica di ciascun paese. In ognuna di queste storie ci sono luci e ombre. Pensiamo a un paese che si ritiene caratterizzato dallo ius soli come la Francia. Oltre che all’automatismo (ora modificato da norme restrittive) dell’accesso alla cittadinanza francese per nascita, c’è sempre stata una notevole facilità  di accesso per lunga permanenza nel paese. Le regole facilitanti questo accesso sono molto antiche: datano all’epoca dell’assolutismo. L’assolutismo statale pretendeva lealtà : non poteva permettere che un cittadino svizzero o italiano diventasse ministro o avesse a Parigi una forte influenza economica politica e sociale. L’acquisizione – anzi l’imposizione – della cittadinanza doveva essere garanzia della lealtà  nei confronti dello stato. Poi, sempre parlando della Francia, il paese era sottopopolato e la forza lavoro nazionale non era sufficiente a soddisfare le esigenze dello sviluppo industriale. Perciò, proprio nel periodo della prima grande espansione capitalistica, fu favorita l’immigrazione di massa destinata a stabilizzarsi nel paese. E ad essa fu chiesta lealtà  in cambio dell’inclusione. Questo – che solo in parte ha a che vedere con lo ius soli – risultò positivo perché l’immigrazione in Francia – dolorosa come tutte le esperienze migratorie – fu più di successo che altrove. Però nel paradiso dello ius soli (gli Usa) molte persone non nate in America per ottenere la cittadinanza hanno dovuto combattere da stranieri nell’esercito nazionale. E ne sono morti tanti in Iraq e Vietnam.
Una concezione più etnica della cittadinanza ha invece sempre caratterizzato, anche nei periodi più democratici della sua storia, la Germania. Fino a eccessi per cui poteva richiedere la cittadinanza tedesca chiunque mostrasse di appartenere a minoranze di origine tedesca insediate all’estero – come emigranti o come coloni – anche molti secoli prima. Così alla caduta del muro molti russi con cognome tedesco – anche se con esclusiva conoscenza lingua russa, e russi all’aspetto fisico e nei modi – chiesero e ottennero la cittadinanza, insieme a tantissimi altri che tedeschi in effetti sembravano e che avevano mantenuto cultura e abitudini tedesche. È avvenuto ad esempio con i Wolgadeutsche (“tedeschi del Volga”) o con i Donauschwaben , gli “svevi del Danubio” (in Romania) ai quali appartiene la scrittrice (in tedesco)premio Nobel 2010 Herta Muller. All’origine di queste norme c’era il principio di appartenenza «alla popolazione tedesca» (una concezione della cittadinanza di tipo “etnico”, di sangue) seguito poi anche per motivi politici e di opportunità  (in primo luogo la disperata necessità  di mano d’opera della Germania nel dopoguerra). Ma la Germania di recente ha operato in direzione giusta, in maniera non distante dalla iniziativa del Presidente Napolitano. Infatti, grazie a una iniziativa rosso-verde, agli inizi del decennio scorso fu aperto il diritto alla cittadinanza ai figli di stranieri nati in Germania. E così – tanto per dirne una – è diminuito il numero degli italiani in Germania per il semplice fatto che sono diventati ufficialmente tedeschi, come di fatto erano.
L’Italia è però rimasta indietro. Non solo si è stati più restrittivi nei confronti degli immigrati, come appena detto. Ma si è potenziata – sotto il ministero Tremaglia – una linea etnica di accesso alla cittadinanza per gli italiani, o per gli ex italiani, all’estero. La legge vigente è paradossale. Sono diventati italiani per definizione (quindi con diritto alla cittadinanza giuridica e al voto politico) tutti i discendenti in linea patrilineare – il sangue della mamma non conta – degli emigrati all’estero fin dal momento dell’Unità  d’Italia. Si tratta di una questione seria da affrontare, anche per il nesso tra cittadinanza e diritto di voto. Il tutto è complicato dal fatto che in America Latina, dove si concentrano milioni di questi potenziali italiani, la grande maggioranza di questi gode o godrà  della doppia cittadinanza.
È proprio questo l’aspetto cruciale anche oggi in Italia. I figli degli stranieri nati o arrivati da bambini in Italia dovranno avere la cittadinanza italiana o anche la cittadinanza italiana? E poi, a diciotto anni, dovranno scegliere per l’una o l’altra o mantenerle entrambi? Ed ancora – nel caso della doppia cittadinanza – come si fa con il voto politico? Come si vede, con tutto questo lo ius soli c’entra ben poco. D’altronde anche i figli dei francesi nati all’estero godono automaticamente della cittadinanza francese. Per tutto questo è utile lasciar correre le questioni ideologiche e trattare i problemi concreti volta per volta guardando alle buone pratiche che si registrano al mondo e non ai principi fondanti.


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