Il virus che produce malattie e profitti

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Non se ne parla più, eppure è vivo e vegeto, il virus dell’Hiv. In Italia si calcola che le persone sieropositive siano circa 180.000, un terzo di costoro non sa di esserlo. L’80% di coloro che si sono infettati lo scorso anno ha contratto l’infezione per via sessuale, il 5% per via iniettiva attraverso l’uso promiscuo di siringhe tra tossicodipendenti, per il restante 15% non è stata individuata con certezza la via di contagio. L’età  media del contagio in Italia è di 39 anni per le donne e di 36 per gli uomini. Sono coinvolte tutte le età , dall’inizio dell’attività  sessuale fino a 70 anni e oltre. Sono circa 4000 le nuove infezioni che si verificano ogni anno nel nostro Paese.
Una scelta «omicida»
In presenza di terapie in grado di cronicizzare la malattia, portando la sopravvivenza anche oltre i 25 anni, ma in assenza di farmaci in grado di distruggere l’agente infettivo (il virus Hiv), è evidente che cresce enormemente il numero dei «potenziali vettori d’infezione». Un concetto facile da capire ma del tutto sconosciuto ai vari ministri e assessori alla sanità  che si sono susseguiti, indipendentemente dal coloro politico, in questi anni. Il risultato è l’assenza di qualunque campagna di prevenzione e di qualsivoglia progetto di formazione; questo è ancora più grave per le nuove generazioni che, non avendo vissuto la stagione della grande paura, non hanno ricevuto nessuna informazione: nelle famiglie italiane di sesso non si parla, nelle scuole tutti i programmi di educazione sanitaria sono stati da tempo tagliati. Restano iniziative sporadiche organizzate dalle associazioni di volontariato o da singoli volenterosi professori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumentano le infezioni e quindi la sofferenza individuale e sociale, e aumentano i costi per la collettività : le persone in cura in Italia sono circa 60.000 con un costo tra gli 8.000 e i 10.000 euro per persona e una spesa annua complessiva di circa 500 milioni di euro per la cura.
Le multinazionali brindano
Ovviamente c’è anche chi brinda; chi inizia le terapie deve poi proseguirle per tutta la vita: non è difficile comprendere il business delle aziende farmaceutiche, 60.000 clienti fissi, destinati ad aumentare ogni anno. I miei colleghi del mondo medico-scientifico sono ben consapevoli della gravità  e dell’assurdità  della situazione e sanno perfettamente che se si investisse nella prevenzione si eviterebbero numerose infezioni e si risparmierebbero centinaia di migliaia di euro. Ma la ricerca in Italia è finanziata quasi unicamente dalle aziende farmaceutiche e se ne contrasti gli interessi sei automaticamente fuori dal giro: dalla ricerca, dalle pubblicazioni scientifiche sulle riviste internazionali, ecc. Il taglio dei finanziamenti pubblici e la cancellazione, ormai da qualche anno, del piano nazionale di lotta all’Aids da parte del ministero della salute completa il quadro.
Sono state recentemente pubblicate dall’Istituto Superiore di Sanità  le nuove linee terapeutiche per l’Aids, nella loro stesura sono stati coinvolti oltre novanta ricercatori: solo 27, meno di un terzo, non hanno in essere collaborazioni con aziende farmaceutiche. Tutti gli altri hanno un più o meno esplicito conflitto d’interesse.
Divario nord-sud
Nella Conferenza internazionale sulla clinica dell’Aids, svoltasi a Roma nello scorso luglio, è stata rilanciata la PrEP, la profilassi pre-esposizione, ossia la somministrazione di terapie antiretrovirali ai soggetti sieronegativi con potenziali comportamenti a rischio, ad esempio per la condizione di sieropositività  del loro partner. I dati emersi fino ad ora indicano la capacità  della terapia pre-infezione di diminuire solo parzialmente la possibilità  di contrarre l’Hiv; d’altra parte, dopo un determinato periodo, si svilupperebbero delle resistenze che renderebbero necessario il passaggio ad una seconda linea terapeutica. Il soggetto sieronegativo sottoposto a terapia rischierebbe in sostanza di bruciarsi alcuni dei farmaci disponibili ancora prima di essersi eventualmente infettato. Nessuno sembra inoltre preoccuparsi più di tanto dei possibili effetti collaterali prodotti in un organismo sano da farmaci così impegnativi normalmente utilizzati per la terapia di persone HIV+.
Si rinuncia a cercare di modificare i comportamenti a rischio, a rilanciare la prevenzione e si sceglie invece di somministrare terapie «pesanti» a persone sane. Con il rischio, oltretutto, di diffondere l’idea di essere comunque protetti e finendo quindi per «sdoganare» e rendere più frequenti i comportamenti a rischio. È bene infatti ricordare che non stiamo parlando di un vaccino, che una volta assunto garantisce per sempre l’immunità .
Morte della sanità  pubblica
Chi sostiene tale strategia considera la prevenzione completamente fallita e inutile; la soluzione è la medicalizzazione dei sani. In tal modo si deresponsabilizzano le istituzioni pubbliche dal dover realizzare interventi preventivi e i singoli dal dover evitare comportamenti a rischio. Secoli interi di politiche di sanità  pubblica verrebbero cancellati, la medicina preventiva verrebbe azzerata in nome di una totale medicalizzazione, anzi farmacologizzazione, della società . Senza, per altro, potere bloccare l’infezione: infatti non si può certo pensare di mettere in terapia centinaia di milioni, e forse un miliardo, di persone, tantomeno nel sud del mondo.
Non può sfuggire che ci troviamo di fronte ad un tentativo di cambiare il paradigma fondante sul quale è nata l’Organizzazione Mondiale della Sanità : la responsabilità  degli stati verso la salute pubblica. È necessario aprire velocemente un confronto su questi temi innanzitutto tra gli operatori sanitari e poi nella pubblica opinione, prima che sia troppo tardi
Continuano invece a brindare le aziende farmaceutiche: la somministrazione di terapie a persone sane, se diverrà  una prassi, accrescerà  all’infinito il numero dei loro potenziali clienti, ne consegue anche che non avranno alcun vantaggio a finanziare la ricerca del vaccino: perché interrompere un flusso enorme di soldi in continua crescita?
Il vaccino fantasma
In Italia si parla ormai da oltre dieci anni del «vaccino italiano» ma più passa il tempo più la realtà  appare ben diversa. La ricerca era stata annunciata con grandi squilli di tromba e avrebbe dovuto portare alla scoperta di un vero e proprio vaccino. Mentre veniva ridotto il finanziamento per tutta la ricerca biomedica questo progetto è sempre stato sostenuto economicamente non solo dal ministero della sanità , ma anche dal ministero degli esteri. Vasti settori della comunità  scientifica internazionale hanno manifestato, fin dall’inizio, grandi perplessità  verso il «vaccino italiano» che sono notevolmente aumentate con il passare del tempo. Oggi l’obiettivo dei responsabili del progetto sembra essersi modificato, si parla sempre più non di un vaccino vero e proprio, ma di un «vaccino terapeutico», termine improprio utilizzato per indicare un ulteriore farmaco per le persone sieropositive; ed anche sulla reale efficacia di questo vi sono opinioni molto diverse a livello internazionale. Resta da capire per quale motivo continui ad essere fortemente supportato dall’establishment e quali siano i reali obiettivi ed interessi.
Mi fermo qui. Più volte su questo giornale ho parlato del dramma dell’Aids nel sud del mondo, degli oltre 22 milioni di persone sieropositive viventi in Africa abbandonati a se stessi e dei circa 9 milioni che necessiterebbero di cure, negate per gli alti prezzi stabiliti dalle aziende farmaceutiche con la copertura del Wto, del mancato pagamento da parte dell’Italia della quota dovuta al Fondo Globale per l’Aids, la Tbc, la malaria, ecc.. Quest’anno ho scelto di raccontare di quello che accade a casa nostra: non è difficile comprendere come tutto ciò sia destinato anche a peggiorare ulteriormente e drasticamente la situazione nel sud del mondo. Non a caso, fu proprio la scoperta del virus dell’Hiv, ormai quasi trent’anni fa, ad aiutarci a capire come il mondo era diventato un «villaggio globale».


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