L’Incubo del disordine

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Tra qualche settimana o qualche mese, la recessione del 2008 provocata dal fallimento di Lehman Brothers ci apparirà  come una gita in gondola di fronte alle conseguenze dell’insolvenza di paesi come Spagna e Italia, diventata del tutto possibile a causa dell’incapacità  della Germania di decidere come salvare l’euro. In attesa della catastrofe è quindi l’ideologia delle classi dirigenti di quest’ultima che bisogna analizzare.
Per tutto il 2010-2011, quando i titoli di stato greci, irlandesi, portoghesi, spagnoli, italiani e infine francesi sono stati attaccati sul mercato, linea tedesca, in puro stile Bundesbank, è stata «No ai salvataggi senza contropartite in misure di austerità , No agli eurobonds, no al sostegno della Banca centrale europea per i paesi in difficoltà » e questa linea è stata ribadita anche al recente vertice europeo. Banchieri e politici tedeschi attribuiscono alla propria «saggezza» economica, alle proprie abitudini risparmiatrici, la buona salute dell’economia, come se questa non fosse legata all’esistenza di una zona di libero scambio che acquista le sue merci, merci che possono ovviamente essere importate dagli altri membri della Ue solo se questi ultimi mantengono un minimo di potere d’acquisto, se i loro consumi non vengono strozzati. Se la Germania uscisse dall’euro e reintroducesse il mitico Deutsche Mark si troverebbe con una moneta talmente rivalutata rispetto alle altre valute europee da strangolare le proprie esportazioni e il proprio benessere. Difficile da capire?
Perdita di valore
In realtà , la cura dell’austerità  forzata per gli altri ha origine nell’ideologia ossessivamente antinflazionistica che domina le élite tedesche e ha le sue origini lontane in ciò che accadde nel 1922-23, un anno e mezzo di iperinflazione che polverizzò i risparmi delle classi medie. C’è un ricco repertorio di aneddoti popolari su quanto accadde allora: le banconote da 1000 miliardi di marchi, stipendi e salari pagati giornalmente e immediatamente spesi per anticipare il rincaro dei generi alimentari, il caffè che aumenta di prezzo del 60 per cento dal momento in cui viene ordinato al momento in cui viene portato al tavolo, le monete alternative emesse da alcune città  o aziende (Notgeld), il ritorno al baratto. Prima della guerra, un libretto di risparmio con 50.000 marchi permetteva di vivere usando i soli interessi; nell’agosto 1923 l’intera somma permetteva a stento di comprare il giornale. 
Questa citazione di Elias Canetti rende meglio di qualsiasi descrizione dettagliata l’impatto psicologico di ciò che avvenne: «Cosa accade in un’inflazione? Improvvisamente l’unità  di denaro perde tutta la sua personalità , e si trasforma in una massa crescente di unità ; queste ultime hanno sempre meno valore, quanto più grande è la massa. Si hanno d’improvviso in mano i milioni che si sarebbero sempre posseduti così volentieri; ma essi non sono più tali, ne conservano soltanto il nome. (…) Il marco ha perduto la sua solidità  e il suo limite, e varia di minuto in minuto; non è più come una persona, e manca totalmente di stabilità . Ha sempre meno valore. L’uomo che vi aveva riposto la sua fiducia non può far a meno di sentire come proprio il suo svilimento. Per troppo tempo si era identificato con esso, la fiducia in esso era come la fiducia in se stesso. Non solo, a causa dell’inflazione, tutte le cose esteriori sono coinvolte nell’oscillazione, nulla è sicuro, nulla rimane per un’ora allo stesso posto – ma, a causa dell’inflazione, l’uomo stesso è sminuito. Egli stesso o ciò che egli era sempre (stato) non sono più nulla».
Logiche punitive
Nel caso tedesco, il feticismo per la moneta forte deve ricorrere agli aneddoti per ignorare le storie ben più complesse e ambigue che stanno all’origine dell’inflazione del 1922-3, frutto pressoché inevitabile della guerra scatenata nel 1914 e dei trattati con cui Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Italia avevano imposto condizioni di pace insostenibili alla Germania sconfitta. La politica dei danni di guerra che le potenze vincitrici imposero alla stremata repubblica di Weimar fu immediatamente individuata come foriera di disastri da John Maynard Keynes in uno dei suoi libri più preveggenti, Le conseguenze economiche della pace, del 1919. 
La logica punitiva nei confronti della Germania avrebbe annientato le sue capacità  di ripresa economica e questo fu esattamente ciò che accadde. L’iperinflazione fu, in un certo senso, una scelta obbligata per azzerare il debito di guerra e costringere gli alleati a rinegoziare le scadenze dei pagamenti, come in effetti avvenne con il piano Dawes. Essa permise di mantenere un livello dell’occupazione elevato, reintegrando i milioni di soldati e marinai nella vita civile, cosa che sarebbe stata impossibile in un’atmosfera economica deflazionistica.
Gerarchie rovesciate
La situazione sfuggì di mano al governo ma alla fine del 1923 Berlino fu in grado di effettuare con successo un cambio della moneta, introducendo il Rentensmark e, qualche mese dopo, avendo mantenuto la circolazione monetaria entro limiti molto stretti, la banca centrale emise, nell’agosto 1924, il Reichsmark che stabilizzò la situazione. Paradossalmente il cambio della valuta del novembre 1923 fece sparire l’inflazione praticamente dalla sera alla mattina, contribuendo a dare all’episodio un durevole carattere mitico, come di una piaga biblica che scompare quando gli ordini divini vengono obbediti.
Non tutti ci perdettero: l’inflazione impoverì di colpo le classi medie urbane, in particolare gli intellettuali, ma arricchì i possessori di beni materiali: industriali, proprietari di appartamenti, contadini. Fu una gigantesca redistribuzione di ricchezza da cui nacque una nuova Germania, quella delle grandi concentrazioni bancarie e manifatturiere che poi facilitarono l’ascesa al potere di Hitler. 
Ma ciò che soprattutto rappresentò uno choc per la memoria tedesca fu il rovesciamento delle gerarchie sociali che l’inflazione portava con sé. Chi aveva risparmi, o stipendi, veniva impoverito di colpo, un contadino con un pezzetto di terreno poteva ritrovarsi improvvisamente ricco. Il direttore di banca e il professore universitario si ritrovavano sul lastrico mentre le prostitute e gli affaristi facevano fortuna. In tutte le memorie dell’epoca l’accento viene posto sulla perdita di punti di riferimento, sul rovesciamento delle convenzioni e dei ruoli sociali, in particolare per quanto riguarda le donne. L’inflazione appare come un «carnevale dei folli» nei quadri medievali, una punizione divina che si manifesta sotto forma di licenza di fare qualsiasi cosa. Questo era inaccettabile.
Dietro il «miracolo»
La sconfitta del 1945 e l’occupazione portarono con sé un’altra fase di caos monetario: russi, americani, inglesi e francesi stamparono carta moneta, come avvenne in Italia come le famose «Am-lire» diffuse nel ’44 nella parte liberata della penisola. Questo periodo di sofferenze, in cui la Germania fu totalmente dipendente dagli alleati, ebbe fine soltanto con la riforma monetaria del 1948, quando le tre zone di occupazione occidentale si fusero dando vita alla Repubblica Federale. La nascita del Deutsche Mark divenne immediatamente un fatto simbolico di enorme portata, un atto fondativo della nuova nazione tedesca.
Il marco forte fu attribuito al Wirtschaftwunder, il miracolo economico degli anni Cinquanta, e ai suoi autori: il cancelliere Konrad Adenauer e il ministro dell’Economia Ludwig Erhardt e alla politica di stretto controllo della massa monetaria attuata dalla nuova Bundesbank. In realtà , questa ricostruzione è arbitraria: il «miracolo» avvenne anche in Italia e in Giappone e fu la conseguenza non di banchieri particolarmente abili o del rigore ossessivo nella pulizia della casa/nazione bensì del boom postbellico comune a Europa e Stati Uniti. 
In Germania l’economia crebbe a un ritmo superiore all’8 per cento l’anno tra il 1950 e il 1960 – non un miracolo ma una combinazione di fattori favorevoli: le necessità  della ricostruzione postbellica (compreso l’alloggio di milioni di profughi che dall’Est scelsero di emigrare nella repubblica federale), le esportazioni trainate dalle spese militari americane per la guerra di Corea, la disponibilità  quasi illimitata di forza lavoro a basso costo: gli immigrati italiani e turchi che scelsero la Germania per sfuggire alla miseria dei rispettivi paesi e, infine, la possibilità  di investire tutte le proprie risorse in infrastrutture, ricerca e sviluppo in quanto la difesa era garantita dall’integrazione nella Nato.
L’incubo inflazione ha dato origine alla dottrina della Haus in Ordnung, il «tenere la casa in ordine», un’idea da massaia bavarese secondo la quale ogni Stato deve prima di tutto far pulizia al proprio interno e solo dopo potrà  contare sulla cooperazione e la solidarietà  internazionali. Le radici lontane di questa ideologia stanno nell’Ordoliberalismus, una teoria nata negli anni Trenta per opera di Walter Eucken, in cui lo sviluppo economico deve avvenire entro un ordinamento civile fortemente coeso, una società  sostanzialmente impermeabile ai valori esterni. Come ha scritto Patrizio Bianchi, «la potenza economica diviene la forma stessa con cui una piccola comunità  chiusa tra casta e famiglia garantisce la propria libertà  come soggetto unitario». K. H. Bohrer, sul settimanale «Merkur» ha parlato di un «Progetto staterello». Per Jurgen Habermas, la Germania è ammalata di «solipsismo».
Il secondo dopoguerra è stato l’era del feticismo del marco e dell’indipendenza della Bundesbank, la banca centrale. I tedeschi, beneficiari del miracolo economico e poi di un lungo periodo di relativa prosperità , hanno volentieri aderito alla mitologia di una moneta forte che risolverebbe tutti i problemi, se solo i politici si tenessero alla larga. Il crollo della Repubblica Democratica Tedesca e la sua integrazione nella Repubblica Federale hanno definitivamente convinto élite e masse della superiorità  del modello. In questa visione incredibilmente provinciale l’atteggiamento verso la Grecia è più comprensibile: sembra quello dei proprietari dell’attico che criticano la portinaia perché è sciatta e non tiene pulita la guardiola. Non esattamente la visione che ci si aspetterebbe dai leader di una unione di 27 paesi.
I gerani sul balcone
Eppure queste posizioni trovano largo consenso nell’opinione pubblica (il faticoso assorbimento della Germania Est dopo il 1989 è stato possibile solo grazie all’Europa) perché il potere delle ideologie viene precisamente dall’essere sistemi articolati in cui immagini popolari come quella dell’appartamento pulito con i gerani sul balcone e ben più complesse teorie sul funzionamento dell’economia e della politica si integrano e sostengono a vicenda. Complessi scenari economici vengono ridotti a favolette morali come la cicala e la formica: chi ha scialacquato d’estate deve pagare il prezzo della sua imprevidenza d’inverno. E, nel caso tedesco, il paradigma dominante è stato La ricerca della sicurezza, titolo del recente libro di Eckart Conze sulla Germania dal 1949 ad oggi. 
Il problema delle ideologie è che esse accecano i dirigenti, creando una specie di tunnel vision mentale in cui i problemi vengono esaminati solo da un ristretto punto di vista. Quali ipotesi si possono avanzare per spiegare questo fenomeno? I sistemi di idee necessari a una classe o a un gruppo sociale per conquistare il potere e mantenerlo non possono mai essere confezionati in maniera del tutto strumentale: chi volesse servirsi di una ideologia come di un semplice mezzo d’azione, un puro strumento di dominio, non potrebbe evitare di trovarsi «impigliato» in essa nel momento stesso di servirsene. Ogni ideologia è sempre ambigua, maschera della realtà  ma anche camicia di Nesso per chi la indossa.
Poiché la funzione essenziale di un’ideologia è fornire le categorie di interpretazione del mondo, ogni nuovo regime politico si può reggere soltanto nella misura in cui queste categorie contribuiscono alla sua legittimazione. Inizia così un processo storico in cui il regime agisce adattando i fatti della vita alla teoria, per farli rientrare nell’ambito delle spiegazioni accettabili (le ideologie, come sottolineava Althusser, «ci interpellano» e quindi provocano in noi forti reazioni emotive). Ma questo non è un puro esercizio di propaganda: la coesione delle élite si può mantenere solo a condizione che esse stesse credano fermamente in ciò che fanno, altrimenti si disgregherebbero alle prime difficoltà . Ciò rende «necessario» accettare analisi scorrette e perseverare in strategie sbagliate, financo assurde, pur di preservare la dottrina.
Ogni conoscenza è necessariamente relazionale, cioè legata a un’esperienza pratica con il mondo esterno: se manca il feedback (come spesso accade alle élite che tendono ad autoisolarsi) la qualità  dell’informazione degrada. Questo lento accumularsi di errori e interpretazioni sbagliate rende progressivamente inefficace l’azione di governo e conduce ad altri errori, che conducono ad altre interpretazioni sbagliate, in un feedback loop sempre più negativo. Solitamente, la reazione a questo percorso è l’invocazione di un «ritorno alle origini», di un maggiore impegno ideologico, di una più rigorosa applicazione delle ricette previste dai testi fondatori. 
In attesa del disastro.


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