Londra, Dubai e 238 milioni di dollari ecco la macchina da soldi dei bucanieri

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All’alba del nuovo secolo erano cento. Giovani pescatori allo sbando, senza più una guida e con le navi in secco aperte dal caldo soffocante della Somalia. Oggi sono mille, divisi in tre grandi gruppi, pronti all’arrembaggio in mare, sostenuti da diecimila uomini e donne che organizzano il lavoro a terra. Ma i nuovi bucanieri del Corno d’Africa sono soprattutto una multinazionale. Hanno armi modernissime, furgoni, jeep, navi, barche, motori e una rete fittissima di informatori, esperti navali, mediatori professionisti, riciclatori ben introdotti, raffinati broker, occulti e insospettabili finanziatori. Follow the money, segui il denaro, recitava e recita ancora una vecchia regola degli investigatori. E la pista dei dollari, nel caso dei pirati somali, ha svelato ai segugi dei Lloyd, la compagnia di indennizzo marittimo più importante al mondo, sorprese inquietanti.
Nel 2010, il fatturato della pirateria somala è stato di 238 milioni di dollari. Per ogni nave si paga come riscatto, in media, 5,4 milioni. Cinque anni prima non superava mai i 150mila dollari. Nel 2009 sono state assaltate e sequestrate 219 navi; l’anno scorso 345, quasi una al giorno, con 1.181 ostaggi. Una trentina è morta di stenti e malattie. Ne restano 200, tra cui una donna, senza più la garanzia di una nave, distrutta durante l’arrembaggio. Nel 2005 la caccia si era limitata a 35 imbarcazioni. I costi lamentati da compagnie e assicurazioni oscillano tra i 5 e i 7 miliardi. Lungo la rotta che passa nel Golfo di Aden per entrare nel mar Rosso e poi imboccare il Canale di Suez e sfociare nel Mediterraneo, transitano ogni giorno tre navi italiane: è facile intuire quanto sia lucroso il business della pirateria. 
Londra è ormai considerata un vero hub delle trattative. Nella city ci sono società  che forniscono abili mediatori che sono diventati un’autorità  nel campo dei sequestri e del pagamento dei riscatti. La presenza dei Lloyd favorisce questo tipo di professionalità . I pagamenti avvenivano sempre in contante. Ma la difficoltà  nel far recapitare il riscatto, spesso con lanci sul ponte dagli elicotteri e da piccoli bimotori, ha aperto anche la via dell’accredito informatico. I soldi arrivano sicuri dentro conti correnti cifrati, coperti da un segreto bancario inossidabile. Secondo molte fonti, confermate dal Dipartimento di Stato, il Kenya è il paese del riciclaggio dei riscatti dei pirati. Confina con la Somalia e il ruolo del clan degli Hawiye, con le loro basi ad Haradheere, nella regione centrale, agevola il passaggio del denaro via terra. Ma è il centro finanziario di Dubai a essere indicato come il vero terminale.
«Riteniamo», conferma un esperto internazionale di finanze illegali e terroristiche, «che ci sia una montagna di complici nelle diverse filiali bancarie degli Emirati». Un altro esperto, che, come il primo, chiede l’anonimato, aggiunge: «Dubai è la piattaforma ideale dove i pirati possono concludere affari. Ogni banca ha qui la sua filiale, ogni società  il suo branch. Ma qui si svolgono anche la maggior parte dei negoziati nei sequestri, qui sono attive le società  di sicurezza a cui viene affidata la consegna, qui viene spedito il denaro e poi trasferito con discrezione verso altre destinazioni».
Funzionari della polizia degli Emirati smentiscono. Ma solo tre mesi fa il vicecapo della polizia, il generale Khamis Mattar al Mazeina, ammise che c’era del vero nei rapporti di Interpol e Cia. Il denaro incassato dai pirati prende diverse strade: il 50% viene reinvestito per la macchina da guerra e serve a sfamare decine di migliaia di famiglie. Ma il resto finisce in altri business. Droga, armi, turismo sessuale, pedopornografia.


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