Nello scontro tra Londra e Parigi la prima sconfitta della Gran Bretagna

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BRUXELLES. La differenza di stile tradisce, a volte, la diversità  di stati d’animo. Alle cinque di mattina, dopo dieci ore di negoziato al veleno a Bruxelles, il premier britannico David Cameron, isolato e sconfitto, si avvicina al presidente francese Nicolas Sarkozy e gli tende sorridente la mano. Sarkozy, che pure ha appena ottenuto con l’emarginazione di Londra un risultato a lungo perseguito, non sorride per nulla, ignora platealmente il gesto di fair play, e tira dritto. La spiegazione di questo sgarbo inutile è che l’Europa che ieri ha rotto in modo probabilmente definitivo con trent’anni di ambiguità  britannica nell’Ue, è una comunità  esasperata e preoccupata. Solo il fatto di trovarsi con l’acqua alla gola le ha dato il coraggio di respingere l’ennesimo ricatto inglese. Ma questo coraggio lo ha finalmente trovato, sia pure per disperazione. E da domani nulla sarà  più come prima. Il vertice europeo che doveva salvare l’Europa si conclude con uno storico accordo che porterà , entro marzo, ad un trattato intergovernativo sull’Unione di bilancio che sarà  firmato da almeno ventitré Paesi, e probabilmente da ventisei con l’unica esclusione della Gran Bretagna. Il Trattato è un monumento al rigore finanziario in salsa tedesca. Che dovrebbe essere compensato da un rafforzamento della solidarietà  comunitaria per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. Su quest’ultimo fronte, però, nelle conclusioni del vertice di ieri c’è ben poco. Il grosso delle decisioni in materia viene infatti rinviato al Consiglio europeo di marzo, quando si discuterà  di euro-bond e quando si deciderà  un eventuale rafforzamento del nuovo fondo salva stati. Questo è il risultato di un tacito accordo raggiunto nella notte tra la Merkel da una parte, Sarkozy, Van Rompuy e Barroso dall’altra. Prima di mollare sui soldi e di fare concessioni alla necessaria solidarietà  comune, la Cancelliera vuole incassare a marzo la garanzia giuridica del Trattato, da vendere alla propria opinione pubblica come prova della conversione europea al rigore teutonico. Non a caso ieri il presidente Monti, che nel corso dell’incontro ha difeso strenuamente l’idea degli euro-bond, si è rallegrato per «i segnali di evoluzione» da parte tedesca «anche se non trovano espressione scritta nel comunicato finale». Il sollievo dei mercati e della Bce, del resto, sembra confermare l’essenza di questa intesa non detta tra la Germania e il resto d’Europa, che dovrebbe dare alla moneta unica la rete di sicurezza finora mancante. Ma se la lunga marcia per uscire dalla crisi dei debiti sovrani è appena cominciata, la rottura con Londra rischia di cambiare repentinamente il volto dell’Europa che siamo abituati a conoscere. Dal vertice di Milano del 1985, quando Craxi e Andreotti misero in minoranza la signora Thatcher sulla creazione del mercato interno, Londra ha sempre evitato di farsi sconfiggere al tavolo europeo. È riuscita a restare fuori dalla moneta unica e dagli accordi di Schengen sull’abolizione delle frontiere, ma lo ha fatto da posizioni di forza, scongiurando uno scontro aperto. E nei negoziati più cruciali, da quelli sulle regolamentazioni finanziarie e sociali a quelli sulla difesa comune, dalle discussioni sul bilancio europeo a quelle sul progetto di Costituzione fino al recente dibattito sulla Tobin tax, Londra è sempre riuscita a frenare la spinta all’integrazione senza mai dover dare apertamente battaglia. Ieri, dopo ventisette anni di ininterrotti successi diplomatici al tavolo europeo, questo meccanismo si è rotto. David Cameron ha cercato di vendere il proprio accordo sull’Unione di bilancio, un progetto contro cui non aveva obiezioni di principio, in cambio del diritto di veto sulla regolamentazione dei mercati finanziari, tema che sta molto a cuore alla City. Ma il ricatto, perché di un ricatto si trattava, questa volta non è riuscito. Il prossimo vertice europeo di gennaio, per discutere il nuovo trattato, si terrà  a Ventisei: Londra non sarà  invitata. Questa ennesima esclusione non potrà  che accentuare la questione della permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea. In realtà  questa Europa della crisi, con un piede permanentemente nel baratro, derisa e sbeffeggiata per la sua impotenza, si sta scoprendo molto diversa dall’immagine convenzionale di colosso economico ma nano politico. In pochi mesi, senza averne apparentemente né il potere né gli strumenti, il Consiglio europeo ha «licenziato» tre capi di governo considerati a vario titolo inadeguati rispetto alle responsabilità  che ricoprivano. Il primo a cadere è stato il portoghese Socrates. Poi è stata la volta del greco Papandreou. Infine è toccata a Silvio Berlusconi, congedato dal sorrisetto dell’accoppiata Merkel Sarkozy. In tutti e tre i casi, il ritiro della fiducia dei partner europei è coinciso con un rinnovato attacco dei mercati finanziari che ha portato alle dimissioni del governo. Ieri è stato Cameron a dover assaggiare la nuova durezza europea. Mentre formalmente ancora si interroga se dotarsi del diritto di intervenire sui bilanci nazionali, questa nuova Unione della disperazione e dell’emergenza fa e disfa i governi degli Stati membri. E ieri ha mandato un preavviso di espulsione ad un Paese come la Gran Bretagna. Forse nel travaglio della crisi economica a Bruxelles è già  nata una nuova Europa, anche se ancora non se ne è resa conto.


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