Niente austerity per i banchieri

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È arrivata l’austerity anche per i banchieri? L’indignazione per le diseguaglianze sociali che attraversa l’intero Occidente sta ottenendo qualche risultato? Fa sperare che sia vero il caso di Stephen Hester: il chief executive della Royal Bank of Scotland è stato costretto a rinunciare al bonus di fine anno (non per sua gentile concessione, bensì per le poderose pressioni politiche scatenate dall’opposizione laburista). Ma un Hester non fa primavera. Di segno opposto è quest’altra notizia: 104 top manager che lavoravano per la investment bank Dresdner Kleinwort si sono rivolti alle Royal Courts of Justice di Londra per fare una causa collettiva al proprio datore di lavoro: pretendono ben 51 milioni di euro di bonus arretrati, di cui si ritengono illecitamente privati. Non ci sono precedenti nella storia, è la prima “class action” ad avere come protagonisti i banchieri. Altro che pentiti, sono decisi ad aggrapparsi ai propri privilegi, a difenderli con le unghie e con i denti, usando perfino uno strumento legale che fu inventato per tutelare i consumatori.
Stessa musica a Wall Street, nonostante che il 2011 sia stato un anno di magra per i profitti delle banche. Nel tempio globale della finanza, non bisogna farsi ingannare dalle medie. È vero, le stime aggregate dicono che i bonus del 2011 probabilmente scenderanno del 20% (i dati definitivi non sono noti perché alcune banche aspettano fino a marzo per divulgarli). Ma questa è la classica media di Trilussa. In realtà  a fare le spese dell’austerity sono i bancari del middle management, i quadri intermedi, non i grandi capi. Ai vertici della piramide non è cambiato nulla. È sorpreso perfino Brian Foley, un consulente delle banche esperto proprio nelle politiche retributive: «Mi aspettavo che stringessero la cinghia anche gli alti dirigenti, invece no. Ai piani bassi, i bancari hanno preso un botta, i capi per niente». Ecco alcuni dati, per i casi più eclatanti. Il chief executive di Citigroup, Vikram Pandit, si è gratificato con 3,7 milioni di dollari in azioni, che vanno ad aggiungersi a un milione e 750.000 di stipendio; a questi vanno aggiunti 6,5 milioni sotto forma di stock option. Non basta: perché nel pacchetto entrano pure 16,7 milioni di dollari di “retention bonus”, la ciliegina sulla torta. Letteralmente, questo bonus deve servire a “trattenere” il chief executive, evitando che vada a lavorare altrove. Per pagargli un incentivo di fedeltà  così elevato, si suppone che la Citigroup abbia ottenuto dalla guida di Pandit risultati esaltanti. Macché: le azioni di questa banca hanno perso il 44% del loro valore nel corso del 2011. Meno 44% nel valore di Borsa, è esattamente lo stesso disastro subìto da un’altra banca di Wall Street, la Morgan Stanley. Forse loro hanno licenziato l’amministratore delegato responsabile della débacle? Neanche per idea, il chief executive James Gorman si è riconosciuto un compenso di 10,5 milioni, il suo direttore generale John Havens ha diritto a un premio di 3,47 milioni, il capo della divisione consumatori Manuel Medina incassa un bonus di 2,64 milioni e il responsabile della gestione rischi Brian Leach ha 2,36 milioni. Per tutti gli altri, invece, scatta un taglio del 20% e un tetto delle gratifiche speciali a 125.000 dollari. Non è facile provare compassione neppure per questi bancari dei piani inferiori, colpiti da un’austerity sui generis. Dopotutto il tetto a quota 125.000 si applica a un premio di produzione, che va ad aggiungersi allo stipendio normale. Il New York Times ironizza facendo un calcolo di «quante cose non si potranno comprare con 125.000 dollari di bonus, per esempio una Ferrari 458 Spider». Questo non è un problema che affligge il chief executive di JP Morgan Chase, Jamie Dimon, dall’alto dei suoi 23 milioni di bonus; né il suo braccio destro per l’investment banking: 7,8 milioni di bonus più altri due milioni in stock option.
È difficile vedere il liberismo all’opera dietro queste cifre. La “mano invisibile del mercato”, come la definì Adam Smith, non giustifica stipendi così esorbitanti, in un settore bancario che ha distrutto 100 miliardi di valore dal 2007 ad oggi solo in perdite di bilancio (questa stima della distruzione di ricchezza non include né il crollo di valore in Borsa, né i danni indiretti provocati a ogni altro settore dell’economia).
E sì che la Federal Reserve, in cambio delle generose iniezioni di liquidità  erogate per tenere a galla le banche americane, ha annunciato che è in corso un “monitoraggio” sulle loro politiche retributive. Barack Obama aveva tentato un passo ancora più drastico. Nel biennio d’oro in cui il presidente godeva di una maggioranza democratica in entrambe i rami del Congresso, provò a far passare dei tetti ai superbonus dei banchieri da fissare per via legislativa. Apriti cielo. Anche all’interno del suo partito – che non disdegna i contributi elettorali versati da Wall Street – molti sconsigliarono al presidente di indebolire “la sacralità  dei contratti”, un pilastro della certezza del diritto e quindi dell’economia di mercato. Sì, perché i top manager quando negoziano i propri contratti d’assunzione, con l’assistenza di grandi studi legali e superavvocati d’affari, sanno blindare i propri diritti (non per altro i 104 ex della Dresdner pensano di poter vincere il ricorso contro i tagli ai bonus). Non sono altrettanto abili gli operai di General Motors, Ford e Chrysler. Per loro non c’è certezza del diritto, i salari sono ri-negoziabili, e i loro sindacati hanno dovuto accettare tagli pesanti nella crisi del 2008-2009.
L’austerity finisce per esasperare le diseguaglianze, visto che i tagli non valgono per chi sta in cima alla piramide. L’effetto-iniquità  potrebbe essere compensato dal prelievo fiscale. Invece succede l’esatto contrario, come si è dimostrato quando il candidato repubblicano alla nomination Mitt Romney ha dovuto rendere nota la sua dichiarazione dei redditi. Su un reddito di 27 milioni di dollari annui, il capitalista Romney ha pagato un’aliquota effettiva del 13,9%. Per essere tassato così poco, un lavoratore dipendente deve guadagnare meno di 80.000 dollari lordi all’anno. Il fisco agevola i detentori di capital gain, perché sulle plusvalenze finanziarie c’è un prelievo secco del 15% senza alcuna progressività . Quando Obama propone una tassa sui milionari, a destra si leva un coro unanime, da Romney a Newt Gingrich e Rick Santorum la protesta è la stessa: «Questo presidente incita alla lotta di classe». Tassare poco i ricchi è saggio, spiega Romney, «perché noi businessmen creiamo lavoro». Fosse vero, gli Stati Uniti non avrebbero 17 milioni di disoccupati al termine di decenni di sconti fiscali ai ricchi. 
Resta un mistero: come riescono i banchieri a farla franca anche rispetto ai propri azionisti? Che interesse hanno gli azionisti delle grandi imprese a farsi rapinare da quei chief executive che firmano bilanci in rosso? Del tema si sono occupate tre équipe di ricercatori universitari, guidate da Michael Faulkender (University of Maryland), Jun Yang (Indiana University) e John Bizjak (Texas Christian University). Usando la documentazione raccolta dalla Sec, l’organo di vigilanza sulle società  quotate in Borsa, gli studiosi hanno raggiunto la stessa conclusione. Dietro l’aberrazione delle supergratifiche c’è un fenomeno che si chiama “peer benchmarking”. Per “benchmarking” si intende un metodo che fissa degli obiettivi-standard che un’azienda deve raggiungere o superare (è molto usato nel marketing). “Peer” sta per “pari grado”. Dunque, i ricercatori hanno scoperto che il 90% dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende Usa al momento di assumere un nuovo amministratore delegato fissano la sua paga guardando alle paghe dei suoi simili. E con una regola precisa: invocando il pretesto che bisogna “attirare i migliori”, le paghe dei neoassunti devono essere “superiori al compenso mediano”. Quindi la spirale perversa che spinge sempre più su le paghe dei top manager ha una causa semplice: il tuo chief executive va pagato più di quello della porta accanto. È così che dagli anni Settanta i compensi dei top manager sono più che quadruplicati (in potere d’acquisto reale) mentre nello stesso periodo lo stipendio medio dei dipendenti è arretrato del 10% in termini reali. L’hanno battezzata anche la “sindrome del Lago Wobegon”, nome del luogo immaginario inventato dall’animatore radiofonico Garrison Keillor, “dove tutti i bambini sono superiori alla media”. Ci sono state delle ribellioni, capitanate da fondi pensione e associazioni di piccoli azionisti, ma finora con scarsi risultati. È il fallimento della corporate governance: al governo delle imprese, si scopre, c’è ormai un’oligarchia che prende ordini solo da se stessa.


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