“La placca adriatica si sta muovendo sono possibili nuovi sciami sismici”

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ROMA – Sono bastati 5 millimetri per scuotere l’intero Nord Italia. Di tanto infatti si sposta ogni anno la placca adriatica, il frammento di crosta terrestre responsabile dei sismi in Pianura Padana e nelle Prealpi Venete. Anche se fra i due sciami non esiste un legame certo di causa ed effetto, entrambi hanno avuto origine nella marcia verso nord-est di questo blocco di roccia assai rigido e frastagliato. La placca sotto accusa occupa il fondale del Mar Adriatico, ha il suo margine occidentale sul crinale degli Appennini, fino alla punta della Calabria, e confina a nord con quella porzione delle Alpi che attraversa Friuli, Veneto e Lombardia.
Per chi si occupa di valutare i rischi sismici, la placca adriatica è sicuramente un cliente ostico. Colpisce però che sia in Pianura Padana che nelle Prealpi Venete il rischio fosse stimato come “medio-basso” in una mappa ufficiale usata sia dalla Protezione Civile, sia dagli ingegneri incaricati di costruire edifici antisismici. «Sono più rari, ma i terremoti entro la magnitudo 5 possono colpire ovunque. Pianura Padana e Veneto in passato hanno sperimentato sismi molto forti pur essendo considerati luoghi relativamente sicuri», spiega Alessandro Amato, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Nel 1117, quando la terra tremò causando distruzione sia a Verona, sia a Venezia, la magnitudo era a quota 6,5, secondo quanto stimato oggi dall’Ingv. 
Guardare solo al passato, spulciando archivi storici che nel migliore dei casi non vanno oltre il Medioevo, è un metodo che però inizia a essere considerato lacunoso. E, quel che conta, poco adatto a tracciare mappe del rischio efficaci. «Dal 2001 a oggi nel mondo si sono verificati undici terremoti catastrofici. E in nove casi il pericolo era stato nettamente sottostimato» spiega Alessandro Martelli, ingegnere sismico e direttore del centro Enea di Bologna. Il sisma giapponese del marzo scorso è forse il caso più eclatante, avendo raggiunto la magnitudo 9 in un’area che secondo la mappa del rischio globale sponsorizzata dalle Nazioni Unite prevedeva un valore di 6,7. 
Il problema delle attuali mappe del rischio è che tengono conto dei fenomeni del passato, ma non guardano cosa sta accadendo ora nel ventre della terra. «Informazioni utili – spiega Giuliano Panza, professore di sismologia all’università  di Trieste – potrebbero forse arrivare da variazioni anomale delle onde sismiche, deformazioni della crosta, alterazioni di alcuni componenti chimiche nelle acque sotterranee». Prevedere con precisione i terremoti resterà  forse un’impresa al di là  della nostra portata. «Ma integrando i due metodi, quello storico e quello geologico, si potrebbe tracciare una mappa del rischio sismico più precisa e legata all’evoluzione geologica delle placche» sostiene Panza. E prosegue Martelli: «Prima del terremoto dell’Irpinia il 25% del territorio italiano era considerato a rischio, e quindi doveva adottare determinate misure antisismiche. Questo valore fu portato poi al 70% e innalzato all’80% dopo la strage di San Giuliano di Puglia. Con il risultato che il 70% degli edifici italiani sono costruiti con criteri insufficienti per lo stato di rischio attuale».


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