Ragazze in corsa per la Palestina

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GERICO (Cisgiordania) — Dai un’occhiata all’olio, le dicono: e non è quello degli uliveti qui in zona. Copriti il capo, le consigliano: e il velo non c’entra. Fai ancora un giro, la spronano: e non è intorno alla Mecca. Ogni tanto, quando lei esige, i meccanici ai box mugugnano. La manderebbero volentieri a fare ricami. Lei s’è abituata: «Se sei bionda e ben truccata — ride — succede che all’inizio non ti prendano sul serio. Mi fanno ancora qualche scherzo. Ma poi si va in pista. E allora cambiano idea…». Un cambio automatico.

Perché Noor Daud, a 22 anni, è ormai diventata un’eroina della Palestina. La prima, uomo o donna non conta più, che abbia potuto fare una gara di Formula 3 in Israele, contro avversari (tutti uomini) israeliani. E la prima che non si sia accontentata di partecipare: a metà  dicembre, su un circuito nel deserto del Negev, dietro gli albergoni di Eilat, con una macchina sistemata alla bell’e meglio, con una grinta che viene da lontanissimo, Noor ha stracciato tutti. 
S’accendono cuori e motori, sul circuito di Gerico. Si scaldano gomme e speranze: se la pace fosse una pista, qui sarebbero già  all’ultimo giro. 
Oggi è giorno di prove per Noor e le sue sorelle. «The Speed Sisters», la squadra nazionale femminile su quattro ruote. Noor, Betty e Maysun. Le ragazze velocissime affamate d’asfalto su una terra che ancora non possiedono. Sgommano, corrono, vincono. Di chicane in parabolica, i caschi delle Sisters stanno diventando le nuove kefie. «A casa sono tutti fieri di noi, la gente viene a vederci mentre proviamo», si stupisce ogni giorno Noor: «Quando schiaccio l’acceleratore, mi sento una che fa qualcosa per le altre donne palestinesi: vorrei mostrare un’immagine migliore di quella che passate voi dei media». 
Ne hanno fatti, di chilometri. Le Sisters all’inizio erano sei. Nel 1998, quando Noor era una bimbetta e Betty (che di cognome fa Saadeh, è una palestinese d’origine messicana e resta la campionessa di sempre, con gare vinte anche in Giordania) era la capa del team. L’avvio fu una Bmw nera vecchia e scassata, il volante, il sedile e poco altro. «Non fu facile — racconta Betty —. Questo è un posto dove le donne se ne devono stare a casa. E voi sapete come sono certe società  arabe: in alcuni Paesi, non ci permettono di guidare nemmeno una Smart…». Quattordici anni dopo, le Sisters sono un marchio che vende t-shirt, è su YouTube, sarà  presto in un film. Ne sono rimaste tre, ma altre sono sotto esame fra Betlemme e Jenin. Il presidente palestinese Abu Mazen le ha ricevute a palazzo, ha fondato per loro una Federazione nazionale motoristica, ha finanziato la loro iscrizione a gare di velocità  e rally, ha trovato generosi sponsor fra i ricconi del Golfo, ha fatto costruire questi 3 chilometri di pista per le prove a Gerico. «Appena possiamo, corriamo anche qui intorno. Arriviamo fino ai check-point, sfrecciamo davanti al carcere di Ofer…». Solo Nora ha un documento valido per entrare in Israele. E quando lo fa, un pò per provocare, ci dà  dentro: «Una volta la polizia israeliana mi ha ritirato la patente: andavo in autostrada a 200 all’ora». 
La pole position non sarà  per sempre, e le Sisters lo sanno: su Facebook, Nora ha ricevuto qualche commento poco gentile, c’è chi l’accusa per avere accettato di gareggiare «col nemico sionista». Non se ne cura molto: «Ho più amici a Tel Aviv che in Palestina. Ma credo c’entri soprattutto l’invidia. L’occupazione non ha nulla a che fare con le mie gare. E se corro coi colori del mio popolo, non sono tanto diversa da chi sta combattendo per la nostra terra». Perché ci sono nuove Road Map, in Palestina, e non sono asfaltate solo di buone intenzioni.


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