«Noi, razzisti per legge con i nostri intoccabili»

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Clelia Bartoli vive a Palermo – dopo vari pellegrinaggi di studio tra Inghilterra, Stati uniti e India – dove insegna Diritti umani alla facoltà  di giurisprudenza. Il 1° marzo esce un libro che si intreccia alla giornata dello sciopero migrante non soltanto per la coincidenza di date, ma anche per l’argomento e l’approccio: la professoressa Bartoli, infatti, ha condotto una ricerca rigorosa, e anche avvincente, attraverso il corpus legislativo italiano in materia di immigrazione. Il titolo del volume, edito da Laterza, la dice lunga sulla conclusione a cui è giunta Bartoli: «Razzisti per legge. L’Italia che discrimina». Si potrebbe pensare che, tutto sommato l’abbiamo sentito dire migliaia di volte che le leggi italiane possono essere considerate razziste. Ma Clelia Bartoli ci invita a un vero e proprio cambio di prospettiva. «In Italia si tende troppo a legare il razzismo a sentimenti irrazionali, e molto poco a considerarlo nei termini di una dinamica tra dominanti e dominati per il reperimento di risorse simboliche e materiali».
I suoi studi precedenti si sono concentrati sul sistema delle caste indiano. Ha trovato dei parallelismi con la situazione italiana?
Sono partita proprio dallo studio dei movimenti dei Dalit, cioè degli Intoccabili. Gli Intoccabili sono un esempio perfetto di vittime del razzismo istituzionale: la loro identità  è stata costruita attraverso una dinamica di classe collegata a un corpus legislativo. Un intreccio che, come ha spiegato la filosofa Gayatri Spivak, opera una violenza epistemica sui soggetti sottoposti a questa realtà : significa che loro stessi cominciano a percepirsi secondo i criteri che li governano. Per gli Intoccabili era normale scansarsi quando passava un bramino per strada. Qualcosa di simile accade anche nel nostro paese, dove un insieme di leggi tende sistematicamente a inferiorizzare le persone di origine straniera. Una operazione che avviene non soltanto attraverso il contenuto di quelle leggi, ma anche per la loro qualità . In Italia le politiche sull’immigrazione sono caratterizzate da una quantità  di decreti e persino circolari spesso e volentieri in contraddizione tra di loro. Sono queste le caratteristiche principali di quello che viene definito «razzismo istituzionale», e che è molto diverso dal razzismo interpersonale. Per molti versi più pericoloso. Questo genere di razzismo che ha la forza di plasmare in modo quasi inattaccabile la realtà  in cui vivono i cittadini è di solito appoggiato dal ceto medio. 
Ma in Italia abbiamo l’esempio di un partito come la Lega che non è votato dal ceto medio, bensì dai ceti più popolari.
Questo è vero, ma fa molto meno male e ha molte meno conseguenze una delibera comunale che vieta il kebab rispetto all’accordo con la Libia che ha inaugurato i respingimenti in mare e che è stato votato dal parlamento in modo trasversale.
Come sono riusciti i Dalit a ribellarsi al razzismo istituzionale?
Quando sono riusciti, attraverso un percorso politico, a cambiare la percezione della propria identità  e a rivendicarla per loro stessi. Hanno creato anche una propria religione laica, basata sui principi della giustizia sociale. E’ un po’ la dinamica dei neri africani e del «black is beautiful».
Secondo lei iniziative come quelle del 1° marzo sono utili per cambiare i termini dell’identità  migrante?
Possono essere utili, ma non si va da nessuna parte se non si riescono a cambiare le leggi che determinano l’agire e la percezione sociale. Per i Dalit è stato un passaggio fondamentale la nomina a ministro della giustizia del loro leader, Bhimrao Ramji Ambedkar, che è diventato anche membro della Costituente. Ambedkar ha contribuito a mettere alle basi della normativa indiana un sistema di «positive action» in largo anticipo su quelle statunitensi. E’ talmente vero che il razzismo istituzionale è appoggiato dal ceto medio e garantisce una «non concorrenza» sulle risorse che quando quei piani vengono scardinati spesso la conseguenza è un aumento della violenza razzista.
Quali sono secondo lei le leggi italiane che, se riformate, potrebbero mettere in crisi il sistema del razzismo istituzionale?
Senza dubbio quelle che io chiamo due «razze» di leggi: quella sulla cittadinanza e quella che governa la regolarità . La prima ha reso talmente difficile poter acquisire la cittadinanza italiana per una persona di origine straniera da rendere il fatto di essere straniero un dato biologico. La seconda è stata studiata in modo da rendere praticamente impossibile per una persona straniera che vuole vivere nel nostro paese non passare per un periodo di «clandestinità », costringendola volente o nolente in questa categoria.


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