Senza i neri e i loro orishas questo paese non sarebbe lo stesso
Cuba è cattolica, protestante, santera, ebrea, spiritista? E’ una domanda che può formulare chi non conosce i cubani, siano essi nati e cresciuti nell’isola, o emigrati all’estero. Chi conosce i cubani, invece, difficilmente divergerà dall’opinione del primo antropologo cubano che «senza i neri, Cuba non sarebbe Cuba».
Proprio dalla componente afro, pur in tutta la sua diversità , il cubano è stato dotato di un pragmatismo che incorpora in tutto il suo essere ed esprime in ogni sua azione. In questo amalgama che consolida la personalità spirituale del cubano, attuare pratiche afro-religiose e proclamarsi cattolico o massone, mescolare il tradizionale spiritualismo europeo con elementi di religiosità aborigena e africana, o dichiararsi ateo e nel contempo devoto di una qualche divinità , non rappresenta una contraddizione, non gli pone problemi di equilibrio psichico, come potrebbe supporre uno straniero rigoroso.
Esiste però una cecità indotta e auto-indotta che sostiene affermazioni che si distanziano dalla – o addirittura negano la – realtà sociologica, spirituale e religiosa della nazione cubana. Vecchie relazioni di potere sulle quali nacquero, come colonie, i moderni paesi indo-afro-ispano-americani e che prolungano il colonialismo psicologico. Inizialmente si imposero relazioni di potere sostenute sul lavoro schiavizzato. La condizione di schiavo fu giustificata in modo malsano con una supposta inferiorità , la quale, a sua volta, si basava sulla differenza del fenotipo, dei capelli, dalla maggiore o minore quantità di melanina nella pelle: da quello, insomma, che fino a oggi si definisce «razza».
Il nero, nel suo passaggio imposto dalle categorie di non-persone, incivilizzato, inferiore, liberato dalle catene della schiavitù formale entrò nelle repubbliche borghesi americane come «l’altro», il subalterno. E tutto quello che gli corrispondeva, dalla sua filosoifia fino al suo sistema di vita, sarebbe stato privato di autorità , marginalizzato, falsato, folclorizzato. Positivismo e marxismo si sarebbero dati la mano in una così astuta applicazione dell’eredità coloniale. Agli occhi degli esponenti di tali teorie, il nero non sarebbe stato incorporato alle nazioni che paraltro aveva contribuito a fondare, fino a quando non si fosse civilizzato. Ovvero fino a quando non si fosse «bianchizzato» culturalmente e anche geneticamente. Blanqueamiento che, ovviamente, in Cuba avrebbe dovuto passre per la conversione del nero prima al cristianesimo, poi al marxismo.
La politica ateizzante (cioè l’imposizione dell’ateismo di Stato alla società ) non fece i conti con l’esperiena di clandestinità che la realtà impone al subalterno. A differenza del cristiano che, in generale, per la sua pratica religiosa deve frequentare il tempio come spazio fisico visibile, l’afro-religioso cubano, storicamente sottomesso per la sua pratica religiosa ai capricci dei facitori ed esecutori della politica, aveva accumulato una lunga esperienza nel burlare i controlli ed evitare le critiche. Così, nel profondo del suo essere e anche nell’abitazione familiare o in quella del padrino o della madrina, avevea proseguito ad adorare le sue orichas, lwas, o mpungos, implorando loro di inviare tempi migliori. Se i suoi tamburi sacri ormai potevano suonare raramente, previa autorizzazione della polizia, poteva però prendersi la rivincita in un Conjunto Folklorico Nacional che gli permetteva di calcare il palcoscenico internazionale. O poteva girare il mondo facendo parte di uno dei gruppi rock più longevi di Cuba, Sintesis, le cui interpretazioni erano ispirate ai canti e ritmi yoruba; oppure nel gruppo emblematico Irakere che, sotto la guida del pianista Chucho Valdés, aveva introdotto i tamburi batà sia nella musica popolare che nell’ afro-jazz.
La rivincita sarebbe venuta anche nel cuore dei giovani neri che, nati e cresciuti in epoca ateizzante, riuscirono a vincere in battaglie africane con l’orgoglio di quanto fatto e per quanto recuperato: la conoscenza delle proprie culture e religioni raggiunta nella terra degli avi.
Negli anni ’80 del secolo scorso fu invitato nell’isola l’Oni de Ifé, la città sacra di tutti gli afro-religiosi nel mondo e il gran re yoruba, e la sua visita sarebbe rimasta nella sfera della clandestinità .
Circa trent’anni dopo, sarebbe giunto in una Cuba che i governanti ponevano ai suoi piedi l’allora pontefice Giovanni Paolo II. Il quale disse messa nei più importaanti luoghi dell’isola. Per la prima volta, il comandante in capo e allora presidente Fidel cedette la sua piazza della Rivoluzione a un leader religioso e assistette all’evento vestendo insoliti abiti civili e infine, lo accompagnò e salutò all’aeroporto José Marti. Nonostante non sembrasse che il governo cubano avesse ascoltato l’invito del papa che più emozioni aveva causato dentro e fuori dell’isola – «che il mondo si apra a Cuba e Cuba si apra al mondo» – lentamente iniziò a notarsi un sempre più accentuato avvicinamento tra il vertice cattolico dell’isola e lo Stato.
Dalla tolleranza di un sistema parallelo di educazione – che oggi include corsi per la creazione di piccole imprese – fino all’esibizione di un vertice cattolico come unico «interlocutore» al quale si concede la liberazione di prigionieri politici, sono azioni che si iscrivono in questo panorama di avvicinamento di due poteri che si governano con codici simili, verticalisti e gerarchizzanti (non si deve dimenticare la formazione cattolica ricevuta da Fidel e dal fratello Raùl).
In questa mappa del potere non vi è spazio per le religioni africane. Fino ad oggi, qualunque manifestazione di queste ultime è rimasta strettamente di facciata e priva, di legittimità . L’orizzontalità di queste religioni non garantisce l’efficicia di risultati se le si applica le stesse politiche adottate con le chiese cristiane. Le afro-religioni non hanno un capo e ancor meno un leader, ma una molteplicità di questi ultimi, i quali possono vantare solo l’autorità che sanno conquistare tra i propri fedeli.
Un gruppo di leader afro-religiosi ancora è in attesa che sia loro concesso l’incontro che avevano chiesto al cardinale Jaime Ortega Alamino alla vigilia della visita di papa Wojtyla (gennaio 1998). Gli stessi furono esclusi dall’incontro del pontefice con i rappresentanti del mondo cultural-religioso dell’isola. Questa volta uno dei più noti gruppi di babalaos (padri del sapere) dell’isola ha reso noto che non chiederà di essere invitato. E sembra che per papa Benedetto XVI non vi sarà wemilere (il battito festivo dei tamburi per gli orichas) per augurare la riuscita della visita, come invece accadde prima della visita di Giovanni Paolo II.
La storia passata e recente dà loro ragione. I templi cattolici dell’isola sono poco frequentati, comprese le messe della domenica, e tra i pochi fedeli presenti non si avverte alcun attributo che possa identicarli come afro-religiosi. Da un estremo all’altro dell’isola, in qualunque giorno della settimana, la consulta religiosa di iyalochas (madre di santo), babalochas (padre di santo) e babalaos ricevono fedeli e loro festività quotidiane sono affollatissime.
E’tale la densità culturale della Regla Ocha-Ifà o Santeria, che molti elementi di questa vanno perdendo il loro carattere strettamente religioso e sono incorporati nella cultura cubana. Dichiararsi ateo o cattolico e seguire – entrambi – le predizioni dell’anno, conosciute come la Lettera dell’Anno (dei babalaos) è per il cubano naturale come, ormai da tempo, è diventato naturale essere bianco e contemporaneamente rumbero.
Di fronte a questa realtà suonano vacue, ignoranti e estemporanee le affermazioni dei sacerdoti cattolici che qualificano le afro-religioni come «religioni della paura» e restano senza seguito le preoccupazioni del cardinale Ortega a causa della partecipazione attiva e pubblica di tanti professionisti nella Santeria e in altre afro-religioni.
E’ che Cuba è già indubitabilmente afro-ispana.
*Storica e antropologa cubana
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