Chi sono i maoisti indiani

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Dal libro ‘Premiata macellerie delle Indie’ del giornalista Alessandro Gilioli  de L’Espresso (Rizzoli 2007) pubblichiamo un ampio della stralcio della parte sui Naxalisti, i guerriglieri maoisti che tengono in ostaggio i due italiani Paolo Bosusco e Claudio Colangelo.

Il “corridoio rosso”, ormai, copre almeno un quinto, se non un quarto, del territorio indiano. Inizia nel Bihar, al confine con il Nepal, scende verso il Jarkhaland, il West Bengala, naturalmente il Chhattisgarh, poi l’Orissa, l’Andra Pradesh e infine, a occidente, fino al Karnataka. Sono i giornali indiani che l’hanno chiamato così, “corridoio”, per la sua forma verticale, da nordest verso sudovest; “rosso”, naturalmente, perché è pieno di maoisti.

L’idea di unificare o quanto meno coordinare le varie insorgenze locali in una sola “armata rivoluzionaria” si è realizzata nel 2004, quando – dopo quasi quattro decenni di controversie e scissioni – i ribelli indiani hanno fuso i loro principali tronconi nel “Partito comunista indiano (maoista)” e le rispettive milizie nell’Esercito di liberazione popolare (Pla). Il tutto sotto la leadership di Muppala Lakshman Rao, detto Ganapathi: il Prachanda dell’India, insomma.

Quando esplode nel ’67 la rivolta naxalita s’ispira soprattutto da questioni locali: l’arroganza e l’avidità  dei latifondisti del West Bengala, la mancata realizzazione della riforma agraria, l’indebitamento che porta molti contadini al suicidio.

Ma in quel periodo, di sfondo, c’è anche la spinta di grandi avvenimenti internazionali: la guerra di liberazione in Vietnam e, soprattutto, la Rivoluzione culturale cinese, iniziata un paio d’anni prima e i cui orrori sarebbero emersi solo parecchio più tardi. Alla fine dei ’60 i militanti più radicali del partito comunista “ufficiale” (Cpi-marxista), tradizionalmente molto forte nell’India nordorientale, guardano ai fatti cinesi come a un modello di emancipazione delle campagne contro la borghesia cittadina e contro i quadri stessi del partito, “imborghesiti” dall’attività  parlamentare.

Il leader di questa corrente è allora Charu Mazumdar, un intellettuale magro e ieratico che ispirandosi a Mao teorizza la rivolta rurale come declinazione terzomondista della lotta di classe e unica strategia per emancipare da una millenaria discriminazione i reietti del sistema castale: i dalit, che costituiscono il gradino più basso della piramide sociale.

Il moto di Naxalbari, del resto, trae le sue origini ideali proprio dalle primissime ribellioni dei dalit, quelle degli anni ’40 con cui i contadini dell’allora principato di Hyderabad si erano rivoltati contro i proprietari terrieri indiani e contro i colonialisti inglesi, infiammando per mesi – inaspettatamente – le loro campagne.

E’ quella che oggi i libri di storia indiana chiamano la “Telengana Rebellion” e che ha segnato la vera nascita della guerriglia comunista in India. In quel periodo diversi “deshmukh”, i signori feudali, erano stati uccisi o costretti alla fuga, mentre le loro terre erano state ridistribuite tra comuni di contadini. Quella fase rivoluzionaria ha avuto termine nei primi anni ’50, con la nascita della repubblica indiana e la riforma agraria che ha abolito le figure dei “deshmukh”.

Ma la “Telengana Rebellion” ha lasciato in eredità  l’idea che i dalit potessero rivoltarsi vittoriosamente per rovesciare l’ordine sociale. E vent’anni dopo è esattamente questo l’obiettivo di Charu Mazumdar: un attivista che nel dopoguerra aveva partecipato al movimento rurale e non aveva mai smesso di accusare il sistema indiano di essere ancora improntato a una logica di sfruttamento feudale.

Nel marzo del 1967 si accende così la scintilla di Naxalbari, dove circa 150 contadini armati di archi e frecce attaccano i latifondisti e s’impadroniscono dei campi. Nel giro di due mesi, tuttavia, vengono ricondotti all’ordine con la forza dal governo del West Bengala, in cui il partito comunista “ufficiale” ha un ruolo fondamentale.

In sè, quello di Naxalbari è poco più di un tumulto – una ventina di morti in tutto – tra l’altro fallito da un punto di vista militare. Ma la breve rivolta va a inserirsi in un contesto economico, storico e politico che ne ingigantisce il significato. Represso dal governo locale, e quindi dal partito comunista ufficiale, viene invece salutata come «autentica espressione rivoluzionaria» di là  dal confine, in Cina. Inevitabile, a quel punto, una scissione “a sinistra” del Cpi, guidata dallo stesso Charu Mazumdar. La cui strategia è partire da Naxalbari per dare il via a una sommossa epidemica, nella prospettiva di una lunga marcia come quella che aveva portato al potere Mao Ze Dong una manciata di anni prima.


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