LA POLITICA E IL LESSICO DELL’ACCORDO

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Vincere persuadendo è certamente meglio che vincere eliminando l’avversario; ciò non toglie che si debba essere critici attenti dell’arte di far uso della persuasione per far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero. Anche la retorica, del resto, è capace di servire ragioni di giustizia quando riesce a fare mettere chi scrive le leggi nei panni di chi le leggi le deve obbedire. 
Diceva Adam Schmitt che non è necessario vedere soffrire per sapere che cosa si provi soffrendo, proprio perché noi tutti sappiamo essere partecipi immaginativamente di quello che succede ai nostri simili. Non dovrebbe essere necessario essere un lavoratore dipendente per fare una legge sul mercato del lavoro che sia equa, anche per i lavoratori dipendenti. Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell’intransigenza; la prudenza non è mollezza ma saggia fermezza. 
Fare accordi, cercare la via più vantaggiosa per giungere alla risoluzione di un problema di portata generale non equivale ad arrendersi né, d’altra parte, a portare a casa un bottino. Al contrario, in politica si vince quando non si vince troppo perché si vince tendendo l’avversario in gioco. Il linguaggio politico serve a incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono quindi il senso della possibilità  e della fallibilità : poiché se solo una parte è nel vero (o nel falso), non c’è proprio nulla da mediare. La verità  non vuole compromessi. 
L’arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile. Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso costante in questi mesi di trattativa sull’articolo 18: “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. Dogma è diventato il termine usato per designare la resistenza alla flessibilità  nel mercato del lavoro. Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità , è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità  insindacabile. Il dogma è indice di stupidità  e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l’obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”. 
L’uso del termine privilegio è anch’esso molto indicativo. Infatti, se c’è una cosa che in una società  democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell’elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà “, privilegiati assistiti che non meritano l’interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà  di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). Lo Statuto dei Lavoratori è stato fatto per protegge il lavoratore dall’arbitrio di chi ha tutto il potere di decidere. Senza un limite posto dalla legge, quel potere si fa arbitrario. Se si vuole giungere a una giusta riforma si dovrebbero togliere i veri ostacoli all’attuazione di quel diritto, uno per tutti: le disfunzioni della giustizia italiana che impiega anni a risolvere un contenzioso, ed è causa di vera ingiustizia per tutti, per il lavoratore, per chi cerca un lavoro e per il datore di lavoro.
A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un’identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società  sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c’è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c’è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale. 
Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un’idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società . Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.


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