Moody’s “La Grecia è in default”
La locomotiva americana accelera, e i risultati arrivano proprio dove ce n’è più bisogno: l’occupazione. Wall Street chiude in positivo anche se proprio sul finale della seduta arriva il default della Grecia, una notizia che riapre il “caso eurozona” anche per gli investitori Usa. L’associazione che gestisce i contratti d’assicurazione sui debiti – credit default swaps (Cds) – ha sancito che la ristrutturazione del debito pubblico greco farà scattare il pagamento di quelle “polizze assicurative”. Ai fini di questi titoli derivati che sono contratti assicurativi, è come se la Grecia avesse fatto default. Lo conferma l’agenzia di rating Moody’s con l’annuncio in tarda serata: per lei è ufficiale il default greco. Questo perché il governo di Atene ha imposto ad alcuni creditori di accettare le condizioni concordate con la maggioranza delle banche: quindi legalmente la riduzione dei pagamenti sui bond greci non si può considerare “volontaria” per tutte le banche. L’assenza di volontarietà fa scattare la definizione del default, la prima bancarotta sovrana di un paese occidentale sviluppato da 60 anni. L’associazione con sede negli Usa, la International Swaps and Derivatives Association (Isda) terrà una prima asta per fissare il valore dei Cds il 19 marzo. Il valore dei Cds da pagare è stimato a 3,2 miliardi di dollari. Il pagamento può avere effetti negativi sui bilanci delle società che emettono i Cds, spesso a loro volta banche, alcune delle quali americane. La questione greca e i costi del default di Atene si sono riproposti al termine di una giornata che era stata dominata dall’annuncio di un altro mese positivo per l’occupazione Usa, il 24esimo consecutivo. E il terzo mese con un risultato netto sopra i duecentomila posti. Per la precisione sono stati 227.000 a febbraio. E’ questo il saldo netto tra nuove assunzioni e licenziamenti. Ma forse una notizia ancora migliore è quella nascosta dietro un numero che è rimasto fermo: il tasso di disoccupazione pari all’ 8,3% della forza lavoro. Come può restare invariata quella percentuale, se l’occupazione cresce? La spiegazione sta nel fatto che finalmente tornano a presentarsi sul mercato del lavoro i “disoccupati scoraggiati”, cioè tutti coloro che nella fase più dura della crisi avevano smesso di cercare un posto e quindi erano scomparsi dal conteggio della forza lavoro. Lo conferma il fatto che la partecipazione alla forza lavoro è salita dal 63,7% al 63,9% della popolazione attiva, a sua volta in crescita perché gli Stati Uniti continuano ad avere un saldo demografico positivo (nascite più immigrazione).
Qualcosa può ancora far deragliare questa locomotiva americana? Nessuno ha dimenticato quel che accadde esattamente un anno fa, quando ci fu una “finta ripresa”, poi abortita. I mesi di febbraio, marzo e aprile del 2011 registrarono tutti degli aumenti netti di occupazione superiori alle 200.000 unità . Poi però ci furono lo tsunami in Giappone e la crisi dell’eurozona, il pessimismo contagiò gli Stati Uniti, e la seconda metà dell’anno fu segnata da un rallentamento. Ora all’orizzonte c’è un altro tipo di minaccia, un possibile conflitto tra Israele e l’Iran che coinvolgerebbe gli Stati Uniti e potrebbe far schizzare ancora più su il prezzo del petrolio. Fatta salva questa incognita, è ovvio che i dati dell’occupazione hanno un impatto politico favorevole a Barack Obama e contrario ai suoi avversari repubblicani. Pur evitando il trionfalismo, ieri il presidente ha salutato il fatto che “stiamo uscendo dalla più grave crisi economica della nostra generazione”. Il suo principale avversario, il candidato alla nomination repubblicana Mitt Romney, ha dichiarato invece che “questo presidente promise che spendendo 787 miliardi di dollari con la sua manovra anti-recessiva avrebbe abbassato la disoccupazione sotto l’8%, ha fallito il suo obiettivo”. Romney deve riuscire a convincere che se alla Casa Bianca ci fosse stato lui le cose sarebbero andate meglio.
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