Chi sono i nuovi italiani

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Nel 2001 gli stranieri in Italia erano solo 1,3 milioni e in quest’arco di tempo in cui li abbiamo visti aumentare sono saliti ufficialmente a quota 3,77 milioni. È chiaro che a questa cifra bisognerebbe aggiungere un X rappresentato dagli immigrati clandestini, una variabile che per sua natura non si può stimare. Prendendo però il dato ufficiale possiamo dire che 3,77 milioni su un totale di 59,4 milioni di abitanti non è una cifra-monstre. È gestibile. Anche perché, come rilevano i dati Istat, tutto sommato gli arrivi non si sono concentrati sulle grandi città  come invece è successo (negativamente) in molti altri Paesi europei. L’immigrazione si è in qualche modo adattata alla struttura molecolare dell’Italia dei mille campanili: lo testimonia il dato secondo il quale gli stranieri che vivono nelle città  sopra i 100 mila abitanti sono in totale solo un milione, mentre 1,2 milioni risiedono in centri la cui popolazione è compresa tra i 5 a 20 mila abitanti. Più le nuove presenze si sono diluite sul territorio più il fenomeno è risultato governabile e sono entrate in gioco variabili positive come lo spirito comunitario tipico della piccola dimensione italiana. Sul piano degli arrivi l’Istat ci dice che gli incrementi maggiori si sono avuti nel Nord Est e nel Sud, dove però l’incidenza dello stock di stranieri è ancora modesta. I risultati del censimento ci servono dunque a dimensionare un fenomeno che in parallelo con l’incrudirsi della crisi economica è uscito dai radar politici. Se ne parla di meno e anche le forze politiche che ne avevano fatto un argomento centrale della loro iniziativa sembrano aver cambiato registro. Sicuramente la crisi ha ridotto l’appeal del nostro Paese agli occhi dell’immigrazione e forse ha generato anche qualche flusso di ritorno. Dunque da una parte è un bene che la materia «immigrazione» sia retrocessa nella scala delle priorità  dell’agenda politica perché quantomeno segnala il superamento della fase emergenziale. Però è anche vero che, una volta rimosso il problema per i minori flussi di nuova immigrazione, la politica lo ha quasi totalmente dimenticato lasciando da parte tutta quella che dovrebbe rappresentare la pars construens.
L’impressione è che noi italiani qualsiasi problema includiamo nella testa di lista dell’agenda politica dimentichiamo che riguarda anche una quota di popolazione straniera. Sintomatico come nel lungo e appassionato dibattito sulla riforma del lavoro mai e poi mai sia subentrata l’idea di operare un approfondimento sulla condizione degli extracomunitari e sulle normative che ne regolano il lavoro in Italia. Eppure proprio perché l’emergenza sembra superata si potrebbe riflettere su alcune novità  che stanno maturando. In primo luogo il consolidarsi di una «borghesia» straniera rappresentata da piccoli imprenditori che hanno avviato iniziative pienamente legali e che sono interessati allo sviluppo del loro business e quindi a una sempre maggiore integrazione. Stanno crescendo anche le seconde generazioni di immigrati e i problemi che pongono sono diversi da quelli dei loro genitori. In qualche caso, come quello della comunità  cinese, i giovani si presentano addirittura come i possibili protagonisti di un’inedita politica di dialogo. Infine c’è il tema della rappresentanza. Fino a che punto è possibile coinvolgere le comunità  etniche nella gestione dei problemi che riguardano la convivenza civile. Può suonare anche per loro la campagna della piena responsabilizzazione?


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