Diritti fermi ai box, va in pista la rivolta

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Il Bahrain è una polveriera. La repressione scatenata nelle ultime settimane dagli apparati di sicurezza, con la partecipazione attiva di vigilantes sunniti alleati della monarchia assoluta, non è servita a placare la rabbia di chi chiede riforme e diritti. La decisione di re Hamad bin Isa al Khalifa di confermare il Gran Premio di Formula Uno, previsto domenica sul circuito di Sakhir, si è rivelata un tremendo boomerang. Il Gp che nei desideri del re avrebbe dovuto dare al mondo l’idea di un Bahrain normalizzato, invece sta dando risultati opposti. I leader della protesta – spinti anche dalla battaglia dell’attivista dei diritti umani Abdelhadi al Khawaja che da due mesi fa lo sciopero della fame in carcere – hanno deciso di usare la vetrina della Formula Uno per dimostrare che la rivolta contro la monarchia prosegue con rinnovata determinazione. Approfittando anche dell’arrivo di tanti giornalisti stranieri. «È stata una scelta ben precisa quella fatta dal popolo del Bahrain – spiega la giornalista Reem Khalifa -, un modo per attirare l’attenzione su quanto accade nel paese. La comunità  internazionale per un anno intero ha chiuso gli occhi di fronte all’ansia di libertà  e democrazia dei bahraniti». Non pochi reporter però si sono visti rispedire indietro all’arrivo all’aeroporto di Manama, tra i quali i due corrispondenti dell’Ap a Dubai – che nell’ultimo anno hanno dato ampia copertura a quanto accade in Bahrain – e anche un giornalista italiano. L’organizzazione Reporter Senza Frontiere ha attaccato con forza la monarchia bahranita per il trattamento che riserva ai giornalisti, a cominciare da quelli locali. «Il Bahrain è uno dei posti più pericolosi al mondo per i giornalisti. Reporter Senza Frontiere considera il re di Bahrain come uno dei nemici della libertà  di stampa», ha scritto in un comunicato Rsf. Nelle manifestazioni, i giornalisti e innanzitutto i fotografi sono minacciati sistematicamente e aggrediti. «Molti – prosegue il comunicato – sono stati fermati e condannati al carcere dai tribunali militari. Nelle prigioni la tortura è all’ordine del giorno». Persino peggiore è la sorte che attende gli attivisti della rivolta. La repressione è stata durissima nelle ultime settimane. «Dal 14 aprile sono almeno 80 le persone residenti nei villaggi intorno a Manama arrestate e sbattute in prigione. Si tratta degli organizzatori delle manifestazioni tenute nei giorni scorsi e il regime li ha bloccati come misura preventiva. Ma non è servito a nulla, perché il popolo scende in strada comunque, senza timore», riferisce Mohammed Maskati, presidente del Bahrain Youth Society for Human Rights. E se la monarchia ha fatto alzare nella capitale giganteschi cartelloni pubblicitari che esaltano il Gp di Sakhir, l’opposizione ha issato nelle strade di Sanabis e altri villaggi sciiti teatro di continui scontri con la polizia, striscioni con la scritta «Il popolo vuole la caduta del regime». Martedì migliaia di bahraniti avevamo accolto al grido di «Libertà  non Formula Uno», piloti, meccanici e direttori di corsa diretti al circuito di Sakhir. Le prossime ore potrebbero dare un’ulteriore spinta alle proteste. Il Movimento dei Giovani del 14 aprile ha annunciato «tre giorni di rabbia» in occasione delle due sessioni di prove e del Gp di domenica. Da parte sua il partito Wefaq, la più importante delle forze politiche di opposizione, ha annunciato una settimana di manifestazioni e sit-in. Iniziative volte a spostare i riflettori su di una rivolta nata sull’onda di quelle avvenute in Egitto e Tunisia ma che molti fingono di non vedere. Hamad bin Isa al Khalifa è un monarca assoluto ben protetto. Innanzitutto dall’Arabia saudita che un anno fa lo aiutò con truppe e mezzi blindati a spazzare via la tendopoli di Piazza della Perla, il cuore della protesta popolare. Ma anche dagli Stati Uniti che a Juffair, alla periferia di Manama, hanno la base della V Flotta che pattuglia e controlla il Golfo e, più di tutto, tiene costantemente sotto tiro l’Iran. Riyadh e Washington tacciono su ciò che accade in Bahrain, chiudono gli occhi sulle violazioni dei diritti umani e politici a Manama e invece denunciano con forza quelle in Siria. Le vittime ufficiali della repressione in Bahrain rimangono sempre 35 mentre in realtà  sarebbero quasi 90, non poche della quali morte a causa di gas lacrimogeni sparati nelle case e in spazi chiusi. Di fronte a ciò i piloti della Formula Uno non sanno far altro che ripetere che «lo sport è un’altra cosa» e che non può rimanere coinvolto in questioni politiche. «Non è giusto, siamo qui solo per correre e certe cose non dovrebbero accadere», protesta Nico Hulkenberg, driver della Force India, dopo che mercoledì sera quattro membri della sua scuderia erano rimasti coinvolti, senza danni, in scontri tra dimostranti e polizia (una bottiglia molotov è caduta vicino alla loro automobile). «La F1 è divertimento e queste cose non dovrebbero coinvolgerci» aggiunge Hulkenberg, che invece dovrebbe indirizzare le sue critiche nei confronti del patron della Formula Uno Bernie Ecclestone. Il quale, pensando agli introiti pubblicitari e agli incassi derivanti dal Gp, ha confermato una corsa che invece andava annullata. Ecclestone si è fidato delle garanzie degli al Khalifa, decisi a non rinunciare per il secondo anno consecutivo alla Formula Uno. A nulla sono serviti gli avvertimenti lanciati ad inizio aprile dall’ex campione del mondo Damon Hill e la decisione presa qualcher giorno fa del team MRS di rinunciare alla gara della Porsche SuperCup in Bahrain. Gli affari prima di tutto, i diritti dei popoli oppressi vengono dopo.


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