«Articolo 18, conciliazione obbligatoria»

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ROMA — Sui licenziamenti per motivi economici l’ultima parola spetterà  al presidente del Consiglio. Martedì, Mario Monti, assieme al ministro del Lavoro, Elsa Fornero, esaminerà  i circa settanta articoli del disegno di legge che i tecnici del ministero hanno messo a punto partendo dal documento approvato il 23 marzo dal Consiglio dei ministri. E sarà  lui a decidere se cambiare qualcosa rispetto all’articolato che, per ora, non contiene sostanziali novità , nonostante il pressing del Pd e dei sindacati per introdurre la possibilità  del reintegro (invece del semplice indennizzo) per il lavoratore licenziato per motivi economici laddove il giudice accerti l’insussistenza del motivo stesso. È improbabile che Monti su questo ceda. Se lo facesse la Confindustria e il Pdl lo attaccherebbero. Più facile che il duello su questo punto si sposti in Parlamento. Dove, però, se la riforma corresse il rischio di essere stravolta, Monti si giocherebbe il tutto per tutto ricorrendo al voto di fiducia. Ciò su cui intanto il governo sembra puntare è una normativa efficace sulle procedure di conciliazione e processuali riguardanti i licenziamenti. Con un duplice obiettivo: prevenire l’instaurazione delle cause giudiziarie; risolverle con un rito accelerato quando ciò non sia possibile. Ecco perché specifiche norme saranno dedicate alla conciliazione di cui si parla nel documento di linee guida del governo. La procedura di conciliazione sarà  obbligatoria per tutti i licenziamenti di tipo economico.
Secondo le norme attuali (legge 604 del 1966 come modificata dal collegato lavoro del 2010), il tentativo di conciliazione è facoltativo, a richiesta del lavoratore. Dopo la riforma, invece, il licenziamento con motivazioni economiche sarà  sempre esaminato in prima battuta in una sede terza, come gli uffici provinciali del Lavoro, dove le parti, cioè l’azienda e il lavoratore, con l’assistenza dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali, dovranno presentarsi entro un termine prefissato (probabilmente 7 giorni) e decideranno se risolvere la controversia attraverso una transazione economica, che lo Stato potrebbe incentivare con la corresponsione di un voucher che il licenziato potrebbe «spendere» presso i servizi di ricollocamento al lavoro (corsi di formazione e riqualificazione compresi).
Se invece la conciliazione fallirà  e il lavoratore ricorrerà  al giudice, si assumerà  il rischio, nel caso perdesse la causa, di non ottenere nulla, nemmeno la transazione discussa nella fase conciliativa. Ciò dovrebbe far sì che in tribunale arrivino solo una parte delle controversie, quelle dove il lavoratore ritiene di avere un’alta possibilità  di ottenere l’indennizzo, che la legge fisserà  tra un minimo di 15 e un massimo di 27 mensilità , o addirittura il reintegro nel posto di lavoro laddove riesca a convincere il giudice che il licenziamento non ha motivazioni economiche bensì discriminatorie. Per scoraggiare ulteriormente il ricorso al tribunale, si prevede che il giudice, qualora decida per l’indennizzo, ne stabilisca la misura tenendo anche conto del comportamento delle parti durante il tentativo di conciliazione. Questo significa che se la controversia poteva appunto essere risolta prima, perché non ci sono gli estremi del reintegro, il giudice tenderà  a «punire» il lavoratore stabilendo un indennizzo basso.
I processi sui licenziamenti si svolgeranno secondo un rito abbreviato. Non ci saranno però termini perentori entro i quali dovrà  essere pronunciata la sentenza. La scansione del procedimento resterà  rimessa al giudice. Ma questo tipo di cause godrà  di una corsia preferenziale. Del resto procedure d’urgenza in materia di lavoro sono già  previste, per esempio, sulle controversie per condotta antisindacale (articolo 28 dello Statuto dei lavoratori) e nei casi gravi di licenziamento discriminatorio (ex articolo 700 del codice di procedura civile). Sul rito abbreviato sono tutti d’accordo, imprese e sindacati, Pdl e Pd. Ma resta lo scontro sui licenziamenti. «Bisogna mettere il reintegro su quelli illegittimi», dice Susanna Camusso (Cgil). No, replica Emma Marcegaglia, «in questo caso dovremmo cambiare tutto». Con i sindacati sta il Pd: «Quando il motivo del licenziamento, sia esso economico o disciplinare, è insussistente il giudice deve poter sempre decidere il reintegro o l’indennizzo», dice Cesare Damiano.


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