Merkel e Monti bocciano Hollande

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Il premier è convinto che sia arrivato il momento di politiche per lo sviluppo senza però abbandonarsi alle «scorciatorie keynesiane del deficit spending». Quanto alla cancelliera, ribadisce un’opinione già  nota: il fiscal compact «non è affatto rinegoziabile», dice non a caso all’agenzia France Presse. 
Se a Parigi la risposta di Merkel non sposta di molto gli equilibri (ieri un sondaggio dava Hollande in volo davanti a Sarkozy, con uno stacco di dieci punti), a Roma per il Pd le cose si mettono male. Con queste premesse, la rotta di collisione europea fra il candidato Ps, una volta eletto presidente, e il premier Monti, è questione di settimane. Il guaio per Bersani è che a Parigi ha stretto un patto con Hollande e Gabriel, leader della Spd tedesca, scritto nel «manifesto dei progressisti europei». E a Roma ne ha stretto un altro con Monti e i suoi ‘tecnici’, scritto nel programma del governo. E i due testi non combaciano. 
Il patto di bilancio per Bersani va ratificato «perché siamo legati a un vincolo europeo. Ma se vince Hollande diventa credibile la possibilità  di una integrazione con misure che lo bilancino e senza le quali è difficilmente praticabile». Ieri il responsabile economico Pd Fassina ha rincarato, parlando della risoluzione sul Def approvata dalla maggioranza: «Il fiscal compact condanna l’area euro alla recessione. È urgente sostenere, come scritto nella risoluzione, euro-investimenti per sostenere la domanda interna europea e correggere gli squilibri di competitività  nell’area dell’euro». «Ha ragione Hollande: il fiscal compact va rinegoziato», dice Vannino Chiti, «è giusto che l’Italia si impegni per una svolta, convincendo in primo luogo la Germania. Non sarebbe sopportabile per i progressisti una sostituzione di Sarkozy per dare una qualche continuità  al duetto con la signora Merkel per politiche conservatrici».
Insomma, dopo le amministrative, il Pd dovrà  trovare il modo di attestarsi su una linea sempre più vicina ai progressisti europei e sempre più lontana da Monti, al quale pure ha giurato fedeltà  fino al 2013. Con i conseguenti contraccolpi interni. Ma per fare questo ci vuole un riaggiustamento della linea politica. Per questo dal Nazareno da qualche giorno arrivano segnali dell’intenzione del segretario di preparare una «svolta» per il dopo amministrative. Che andranno bene, a leggere i sondaggi. E questa vittoria sarà  – sulla carta – il miglior viatico per le politiche. La «svolta» sarà  votata nell’assemblea nazionale programmata per fine giugno, dovrà  ratificare le nuove regole delle primarie, e confermare il mandato del segretario sulla linea politica e sulle alleanze fin qui «sospese» in attesa della legge elettorale. Ma all’inizio dell’estate, e dopo lo «scossone» annunciato dal Pdl e il maquillage del Terzo Polo, sarà  chiaro se la riforma sarà  concretamente fattibile.
In ogni caso la «svolta», che dovrà  tirare la volata a Bersani candidato premier, non potrà  essere santificata in un congresso, giurano in molti. «Sarebbe folle mettere in campo le sfide interne mentre ci prepariamo a vincere», ragiona un dirigente del Nazareno. «Non tira aria di congresso, è molto più probabile che si faccia dopo il voto delle politiche», dice Matteo Orfini, della segreteria.
Molto probabile? Praticamente obbligatorio: sia nel caso in cui Bersani sia eletto premier, tanto più nel caso contrario. Orfini è tra i bersaniani che il congresso lo hanno proposto: per lanciare la sfida interna ai liberal filo-montiani. Una sfida che sarebbe anche accolta da qualche settore della minoranza. In questi giorni il «liberamente veltroniano» Antonio Funiciello, direttore della testata Qdr (dell’associazione Libertà  eguale di Morando e Ventura) ha fatto circolare un sondaggio di Spincon, fatto su un campione di elettori del Pd e del centrosinistra: il 65,7 per cento chiede un congresso. Funiciello ovviamente il congresso la pensa come loro: «Dal 2009 a oggi è cambiata l’Italia, oltreché il Pd. E infatti a non volere il congresso sono proprio quelli che vogliono andare al voto con gli equilibri interni del congresso del 2009», spiega. Sottintende i big delle aree che hanno appoggiato il segretario all’epoca. Oggi più interessati alla definizione degli incarichi di governo che alla battaglia interna.


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