Messico in movimento

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Che lo stato di salute delle letteratura messicana sia eccellente lo dicono in molti, magari confrontandolo con quello incerto della nazione, che in luglio affronterà  le Elecciones Generales per rinnovare le due Camere del Congresso e scegliere un nuovo presidente della Repubblica. E a confermare questo stato di grazia, ecco una curiosa coincidenza: due editori italiani pubblicano in contempora i romanzi brevi e bellissimi di due autori appartenenti a generazioni diverse, che hanno scelto protagonisti alle soglie dell’adolescenza per raccontare non solo il passaggio dall’infanzia all’età  adulta, ma anche le trasformazioni profonde del loro paese. 
L’apparizione di uno dei due romanzi rimedia in parte all’ultradecennale disattenzione della nostra editoria nei confronti di José Emilio Pacheco che, nato nel 1939 a Città  del Messico, è al tempo stesso un maestro del racconto, un grande traduttore e saggista, un famoso giornalista culturale e infine uno dei maggiori poeti contemporanei di lingua spagnola. Di Pacheco si conoscevano finora solo tre traduzioni: Gli occhi dei pesci, un’antologia di poesie curata da Stefania Bernardinelli (Medusa 2006), la raccolta di racconti Il principio del piacere (Giunti 1995) e il romanzo Battaglie nel deserto (Giunti 1993). Ed è appunto quest’ultimo, rivisto dall’autore, a venire oggi ripreso da La Nuova Frontiera (pp. 96, euro 9,50) nella traduzione di Pino Cacucci. 
Il titolo si spiega con le piccole guerre tra «arabi e israeliani» combattute per gioco nel cortile della scuola che il protagonista frequenta nel decaduto quartiere Roma, pieno di arabi ed ebrei veri che si guardano in cagnesco, dove Carlitos conosce Jim, nato negli Usa e figlio di Mariana, straordinariamente bella e così diversa dalla sua mamma borghese e bigotta. Di lei, che è l’amante di un pezzo grosso senza scrupoli, Carlitos si innamora a prima vista: un amore autentico, anche se a provarlo è un bambino che non ha ancora capito la meccanica del sesso (a svelargliela è il suo confessore, prodigo di spiegazioni tecniche). Sarà  per quell’amore, dichiarato con sincerità , che Carlitos verrà  esaminato da preti e psichiatri, costretto a non rivedere più il volto luminoso di Mariana e, dopo una rivelazione terribile, a piangerlo.
La storia di una educazione sentimentale, dunque, narrata da un adulto che ricorda con vivezza i propri sentimenti e ce li restituisce con umorismo costante (il libro è divertente e malinconico insieme) e qualche tocco lirico, in una prosa musicale e rapida che conferma la poetica della desolazione e dell’ombra tipica di tutta l’opera di Pacheco, e che rimanda ad altri suoi magistrali racconti sull’infanzia e l’adolescenza, materia difficile da trattare che lo scrittore messicano maneggia con una sapienza esemplare.
Sì, Carlitos ricorda tutto, in primo luogo la sua città  e il suo paese com’erano negli ultimi anni ’40, quando gli Stati Uniti colonizzavano l’economia, la vita quotidiana e l’immaginario di un paese ancora non dimentico della guerra cristera (la sollevazione cattolica degli anni ’20 contro l’ anticlericale Partido Revolucionario Institucional ) e tuttavia ansiosa di modernizzarsi. Ma la transizione da un Messico quasi arcaico a quello industriale e consumista si accompagna alla corruzione di sempre, allora espressa dalla presidenza di Miguel Alemà n, il «Mister Amigo» che presiedette alla industrializzazione del paese, diede il voto alle donne, represse le manifestazioni operaie e si circondò di politici che, come l’amante di Mariana, si arricchivano grazie agli appalti governativi.
Tutti questi ricordi si incarnano in continui elenchi (a tratti quasi delle filastrocche) di marche, oggetti, letture, canzoni, giochi, spettacoli e spazi urbani destinati a sparire, mentre Città  del Messico, già  sordida e inquietante nel racconto di Carlitos, sta per diventare una delle più impressionanti megalopoli del pianeta. «La città  di allora non c’è più. E neanche il paese in cui ero nato, esiste più. Non resta viva neppure la memoria del Messico di quegli anni. E a nessuno gliene importa granché: chi mai potrebbe provare nostalgia per quell’orrore». Così si chiude il romanzo, che afferma l’inutilità  della memoria proprio mentre fa di tutto per evocarla, disegnando il veloce ritratto di un amore impossibile e, attraverso di esso, di una società  sull’orlo di enormi cambiamenti e di nuovi orrori. 
Quali e quanti , potremo misurarlo grazie al secondo romanzo in questione, Il bambino che collezionava parole di Juan Pablo Villalobos, nato nel ’73 a Guadalajara, che due anni fa ha pubblicato da Anagrama questa sua opera prima, che ora esce per Einaudi (pp. 78, euro 10) con un titolo vagamente vezzoso e meno ironico di quello spagnolo, Fiesta en la madriguera. Perché la madriguera è la tana, il covo, e la festa è quella sanguinosissima del potere narco, che si perpetua attraverso continui sacrifici umani e che sostituisce e condiziona quello politico. 
Da tempo le stragi e le strategie dei narcos sono diventate letteratura, tanto che si parla sia di narconovela come genere, sia, scherzosamente, di un cartél di scrittori che frequentano assiduamente il tema, e, dato che il livello della produzione spesso lascia spazio a un sensazionalismo truculento, le polemiche non mancano.Ma Villalobos, che come tanti autori latinoamericani vive all’estero (per l’esattezza a Barcellona, dove lavora in una impresa di e-commerce e presto pubblicherà  il suo secondo romanzo), appartiene al cà´té più letterario della narconovela, quello che approda a una indubbia qualità  di scrittura, come nel caso di Julià n Herbert, il celebrato autore di Cocaina: manual de usuario e Canciòn de tumba, o dei norteà±os Carlos Velazquez, Luìs Humberto Crosthwaite e Antonio Ortuà±o, e soprattutto di Yuri Herrera, scrittore di tutto riguardo tradotto da non molto anche in Italia.
Proprio a Herrera e al suo Trabajos del reino (La ballata del re di denari, La Nuova Frontiera 2011), si potrebbe accostare questo libro di Villalobos in cui la voce narrante è quella di un ragazzino, Tochtli, che vive recluso nel palazzo-rifugio di suo padre, capo di un cartello di narcotrafficanti. In un mondo fatto di machos, dove le donne sono solo fuggevoli comparse, Tochtli ha un precettore fissato con il Giappone e appassionatamente anti-capitalista, legge in continuazione il dizionario e possiede una formidabile familiarità  con la morte. E racconta, con inarrestabile umorismo, la sua percezione dell’universo chiuso in cui vive e che assomiglia a quello truculento delle fiabe, basato su ruoli fissati da antiche convenzioni narrative: un re che ha potere di vita e di morte su ciò che lo circonda ed è disposto a tutto pur di accontentare il principe, perfino quando gli chiede due ippopotami nani della Liberia da aggiungere al suo zoo privato…
Carlitos si muove in uno spazio urbano e domestico segnato dai tabù e dalle ingiustizie del «vecchio» Messico con il suo cattolicesimo reazionario e le sue enormi disuguaglianze sociali, ma in cammino verso un «nuovo» che non necessariamente sarà  migliore; Tochtli, invece, è un regale pesciolino chiuso in un acquario, un mondo fittizio che può andare in pezzi da un momento all’altro, ma che si regge su regole immutabili da decifrare per dare un senso alla follia degli adulti. Così, se Battaglie nel deserto si configura come un romanzo in cui tutto è in evoluzione (sentimenti, spazi, classi sociali), Il bambino che collezionava parole è un racconto immobile, un paesaggio racchiuso nella palla di vetro del narco, un palcoscenico su cui attori interscambiabili dalla vita breve si avvicendano sanguinosamente per rappresentare gli stessi personaggi. Carlitos crescerà , ma non possiamo dare per scontato che ci riuscirà  anche Tochtli.
Dopo aver corso il rischio di scegliere un protagonista bambino e di adottare il suo punto di vista (espediente che il più delle volte si risolve in una serie di irritanti banalità ), Villalobos ha saputo dargli una voce convincente, letterariamente verosimile, capace di esporci da un’angolazione nuova e audace la tragedia del Messico di oggi. E la comicità  ingenua, feroce e dolorosa che lo attraversa non è l’ultimo dei pregi di un romanzo all’apparenza semplice, ma quanto mai sofisticato: ridere, si sa, è una forma di denuncia sovversiva, e non esclude l’indignazione, né la buona letteratura.


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