L’urlo di Chen: Hillary portami via

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«Vorrei dire al presidente Obama: per favore faccia tutto ciò che può per portare via (dalla Cina) la nostra famiglia». Con questo appello disperato, lanciato ieri attraverso la Cnn, Chen Guangcheng ha smentito la versione del dipartimento di Stato Usa e delle autorità  cinesi, secondo la quale il giorno precedente l’attivista per i diritti umani avrebbe lasciato «di sua spontanea volontà » l’ambasciata statunitense di Pechino nella quale aveva trovato rifugio per sei giorni, dopo una rocambolesca evasione dagli arresti domiciliari. 
«L’ambasciata ha esercitato continue pressioni affinché me ne andassi e mi ha promesso che avrei avuto delle persone con me qui in ospedale, ma questo pomeriggio mi sono accorto che se ne erano già  andati via tutti», ha denunciato ai media stranieri il quarantenne avvocato non vedente che si batte contro la politica del figlio unico. La sua protesta ha gettato nel panico i funzionari statunitensi accorsi a Pechino per il primo giorno dello «Strategic and economic dialogue», il vertice bilaterale passato rapidamente in secondo piano, coperto dall’imbarazzo per la gestione dell’affaire Chen. 
A quel punto ci ha messo la faccia Gary Locke, l’ambasciatore che l’altro ieri aveva «scortato» l’attivista (leggermente ferito dopo una caduta rimediata durante la fuga dal suo villaggio dello Shandong) verso l’ospedale Chaoyang, dove aveva riabbracciato moglie e figli. «Posso dichiarare in maniera inequivocabile che non sono mai state fatte pressioni affinché se ne andasse: era emozionato e impaziente di uscire» dalla rappresentanza diplomatica, ha dichiarato Locke, ex ministro del commercio di Obama e primo ambasciatore americano a Pechino di origini cinesi. Arrivato nella Repubblica popolare un anno fa, Locke mangia nei fast food, viaggia senza scorta e quando si sposta all’interno della Cina si rifiuta di alloggiare in alberghi di lusso. Abitudini amplificate dai media che lo hanno reso molto popolare tra i cinesi. 
Chen gli ha risposto spiegando di essere apparso contento all’uscita dalla rappresentanza diplomatica, perché sarebbe stato tenuto all’oscuro dell’accordo tra Washington e Pechino per tenerlo in Cina, e si è detto «molto deluso dal governo americano» perché «in questo caso non credo abbia difeso i diritti umani».
L’intesa tra i due governi – il primo in campagna elettorale per le presidenziali di novembre, il secondo alle prese con i postumi dell’epurazione di Bo Xilai (il carismatico leader comunista della metropoli di Chongqing, rovinato da una torbida storia di omicidio, intercettazioni ad altissimo livello e movimenti di denaro) – prevedeva che a Chen fosse fornito un domicilio sicuro, per lui e la sua famiglia. Yuan Weijing, la moglie dell’attivista che ha già  pagato con sette anni, tra carcere e arresti domiciliari, la sua battaglia contro la politica del figlio unico e gli aborti forzati, ieri ha descritto come «molto pericoloso» l’esito di quel patto. «Se ci riporteranno a casa verremo rinchiusi in una gabbia di ferro», ha detto Yuan. 
Ma è davvero così che finirà  l’odissea di uno degli attivisti cinesi più popolari, in patria, dove è sostenuto da una rete di migliaia di utenti «politicizzati» di weibo – il twitter locale – e all’estero, dove la sua lotta è stata raccontata dalle molte ong che si occupano di diritti umani?
Il governo cinese tace, ma è anch’esso infastidito dalle esternazioni di Chen, tanto che ieri pomeriggio alcuni giornalisti stranieri che stavano lavorando nella struttura dove l’attivista rimane ricoverato sono stati identificati dalla polizia e sono stati loro sequestrati i tesserini stampa.
Hillary Clinton – la paladina dei diritti dell’uomo esportati anche con i bombardamenti – nel corso del bilaterale con i cinesi ha evitato di fare esplicito riferimento a Chen. «Tutti i governi sono tenuti a rispettare il desiderio dei propri cittadini di avere dignità  e stato di diritto e nessuna nazione può o deve negare questi diritti», ha dichiarato il segretario di Stato americano, a cui preme l’aiuto di Pechino soprattutto sui dossier Siria e Iran.
Mentre andiamo in stampa, fonti diplomatiche degli Stati uniti fanno sapere che stanno riesaminando le «nuove» richieste di Chen, che non demorde e al settimanale americano Newsweek dichiara: «La mia speranza più grande è di poter salire sull’aereo di Clinton diretto verso gli Stati Uniti».


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