Se questo è uno sport

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È la fine di un mondo, e di un inganno. Come una lapide sulla credibilità  del nostro calcio, uccisa da un anno tremendo: giocatori in galera, il luccichìo delle manette all’alba, l’allenatore della Juventus indagato per associazione a delinquere (ma per fatti che si sarebbero svolti quando lui era al Siena), gli “zingari”, gli “ungheresi”, campioni fotografati con criminali comuni fuori da un ristorante. Perquisizioni notturne, computer e telefoni cellulari sequestrati, cassetti rovesciati, armadi svuotati. Come per le vicende di mafia, camorra o riciclaggio. Come nei film. Invece, questo sarebbe sport.
Almeno sette partite truccate in serie A, diciassette in B, con diciannove arresti: anche il capitano della Lazio e l’ex capitano del Genoa dietro le sbarre. Il calcio non riesce a togliersi lo sporco di uno scandalo, che subito s’inzacchera con il successivo: siamo ancora qui a discutere sulla terza stella bianconera, ed ecco che da Calciopoli si passa all'”illecito strutturale” delle scommesse, una vicenda dai confini mondiali, dall’Asia fino a casa (o cosa) nostra passando per l’Est europeo, l’Ungheria, la Svizzera. All’inizio, sembrava una vicenda di quattro balordi, giocatori a fine carriera, pesci piccoli, squadre minori. Pareva poco più di un furto di galline, una commedia grottesca con il portiere che mette il sonnifero nell’acqua dei compagni per stordirli, e perdere meglio la partita tutti insieme. Poi gli arresti di Beppe Signori, uno dei più forti attaccanti della storia, oggi accusato pure di riciclaggio, poi i carabinieri da Cristiano Doni che prova a scappare in garage. Poi le testimonianze dei pentiti, la ragnatela sempre più estesa fino all’altra parte del mondo, i nomi dei club coinvolti: roba grossa, enorme. Finché, ieri mattina, il fango non è tracimato addirittura in nazionale, la squadra che il povero commissario tecnico Prandelli – l’inventore del sacrosanto codice etico, persona più pulita di uno specchio – ora dovrà  condurre agli europei navigando nella tempesta: Criscito va a casa, Bonucci invece resta, pure lui indagato, già  così sembra una vicenda quasi impossibile da gestire. Anche se la nazionale, in passato, ha trovato forza proprio dentro la bufera, vincendo il mundial ’82 dopo le scommesse preistoriche dei fruttivendoli, e la coppa del 2006 in piena Calciopoli. Ma la vergogna non può alimentare la statistica. 
Il marcio è mondiale, però la fragilità  del sistema è tutta nostra. L’ha messa alla prova, e smascherata, proprio la stagione più nera della storia. Non solo le scommesse, anche la violenza, anche gli ultrà  padroni: come quando, a Genova, hanno obbligato i loro amati giocatori a levarsi le maglie. E nessuno lo ha impedito. Così come nessuna regola riesce a vietare che campioni affermati facciano pubblicità  alle scommesse, sia pure legali: forse non è più il caso, anche per una questione di eleganza. E di credibilità : come può il tifoso, ingenuo nelle sue passioni ma sempre più stanco e disincantato, continuare a fidarsi di quello che vede in campo? Come convincerlo che non è tutto trucco, tutto inganno?
La squadra che rappresenta un intero Paese, la nazionale, e la società  più amata, la Juventus che pure non c’entra niente, come simboli di una ferita profondissima: è beffardo per i bianconeri, appena tornati campioni d’Italia, rischiare di perdere l’allenatore che li ha riportati fin lassù. Ma l’accusa nei confronti di Antonio Conte è grave, non solo omessa denuncia. E nel diritto sportivo l’onere della prova spetta agli accusati, non agli accusatori. Il presidente Agnelli si è immediatamente schierato con il suo allenatore, e ha fatto bene. Ha messo in moto un formidabile apparato legale: questa volta, c’è da risolvere un problema più grande dello scudetto di cartone di Moratti e dell’Inter.
Tutto è caos, paura, incertezza. Squadre di grande nome come Lazio, Genoa, Siena ma anche, in misura minore, Udinese e Chievo, non sanno che campionato andranno a disputare, con quanti punti di eventuale penalità . E c’è chi potrebbe addirittura retrocedere. La giustizia penale, con i suoi tempi non rapidissimi, e quella sportiva, che ha invece esigenze di maggior celerità  (campionati da disegnare, calendari da preparare, tesserati da punire o assolvere), ora incrociano i territori. Impossibile prevederne l’esito. Le procure di Cremona, Bari e Lecce hanno agende che non possono essere quelle della procura federale, ma neppure si può restare troppo in attesa di giudizio: anche se la fretta della giustizia sportiva, da Calciopoli in avanti, ha quasi sempre fatto danni. Forse, servirebbe il coraggio di fermare il calcio per qualche mese, ma interessi economici colossali non lo permettono. È meglio andare avanti così, in maschera? In attesa di altre manette?
Niente processi sommari, niente colpi di spugna. I giudici, sportivi e ordinari, si prendano il tempo che occorre alla chiarezza. Nell’attesa, le istituzioni del nostro sport affrontino finalmente il dovere del cambiamento. Servono idee e volti diversi per riportare il calcio su un asse di moralità , per fermare la spaventosa asimmetria etica che lo ha devastato. Il terrore del nuovo alimenta solo il vecchio male.


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