Sotto la torre ferita che veniva giù Finale Emilia come L’Aquila

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FINALE EMILIA (Modena) — Aveva ragione mio figlio grande. Un saggio di otto anni non ancora compiuti. «Mamma, papà , vi prego, non andiamo da quella parte, mi fa paura. Non voglio entrare in questo paese, ci sono troppe pietre per terra, crepe nei muri. Torniamo a casa». «Ma dai, non ti preoccupare, è tutto finito — gli abbiamo risposto in coro, genitori e fratellino più piccolo con una sola voce — il terremoto c’è già  stato stanotte. Vedrai, non succede nulla. Diamo un’occhiata al centro e alla casa dei nonni, solo dal di fuori, per vedere se è tutto a posto, e poi ce ne andiamo».
Errore. La terra comincia a tremare di nuovo. Una prima volta, leggermente. E poi una seconda, fortissimo, alle 15 e 18 minuti di ieri. «Viaaa, viaaa, via tutti. Bambini, in mezzo alla piazza, correte!». «Papà , papà , dov’è papà ?». «Correte, e basta».
Davanti a noi quello che era rimasto della Torre dei Modenesi — il monumento di cui i finalesi andavano forse più orgogliosi — rovina a terra in una nube rossa di polvere e calcinacci. Le grida si mescolano alle grida. Ci viene incontro una donna urlando con tutto il fiato che ha in gola: «Ettore! Ettore! Ettore è in casa, era tornato dentro a prendere qualcosa proprio lì, di fianco alla torre, aiuto, fate qualcosa».
Scappiamo. Via, via, via. Lontano, più lontano che si può. Esitiamo un attimo. Quale strada scegliere? Le vie sono strette, incombono tegole e cornicioni. «Tutti di là , dove la strada è più larga. E adesso ragazzi, correte con tutta la forza che avete». Obiettivo: l’automobile, la salvezza. Quattro gomme e una meta obbligata: la campagna. Lontano dalle case e da nuovi crolli. Lungo la strada, alla nostra sinistra, vedo un vigile del fuoco a terra, ferito, un suo collega che cerca di soccorrerlo come può. «Bambini, avanti, guardate avanti, correte».
Ci sono pezzi che un cronista non vorrebbe mai scrivere. Sono quelli in cui ci si trova a raccontare qualcosa senza aver avuto nessun merito. Quelli decisi dal caso, che ti ha fatto essere in un certo posto in un preciso momento. Sono soprattutto quelli in cui sei parte in causa e anche solo tentare di essere obiettivi e distaccati diventa una sforzo irragionevole. E questo è il caso.
Allora scopriamo le carte. Finale Emilia è il paese dei miei nonni, dei miei studi, degli affetti e delle radici. È un posto di confine, dove non arriva nemmeno il treno. Qui la gente è fatta di una stoffa spessa e ruvida, almeno all’apparenza. Gente abituata a chinare la testa e a lavorare sodo. Contadini, fino agli anni Sessanta. Poi sono arrivate le fabbriche, le ceramiche in particolare. E i contadini hanno lasciato cadere a terra zappe e rastrelli per indossare le tute blu degli operai. Le strade sembrano disegnate con il righello, più che in chilometri si misurano in pedalate. Le case molti se le sono costruite da soli, negli anni Sessanta, lavorando nel fine settimana, e rafforzando l’abbrivio del boom con una buona dose di olio di gomito.
Il clima è afoso d’estate e brumoso d’inverno. Tollerabili solo la primavera e l’autunno. Forse proprio per reagire a un ambiente non sempre felice, questi strani modenesi di confine, con l’accento più simile a quello dei vicini ferraresi, compensano con solidarietà  e un carattere gioviale che li porta a organizzare sagre, carnevali e feste del patrono a ciclo continuo.
Questa presenza di spirito ha aiutato, ieri, a preparare le auto per la notte senza lasciarsi troppo prendere dallo sconforto. Nessuno aveva voglia di attardarsi troppo a far le valigie e così molti hanno semplicemente preso i sacchi neri della spazzatura e hanno buttato dentro quello che capitava a tiro: abiti, il pupazzo preferito dei bambini, qualcosa da mangiare. E poi tutti a dormire — si fa per dire — lontano dal paese, in mezzo ai campi.
Il centro storico è in pezzi. Con quello dell’Aquila (che pure è in una condizione infinitamente peggiore, un paragone in questo senso sarebbe fuori luogo) ha in comune il silenzio dei luoghi morti, abbandonati. Per descrivere la notte di sabato più che di paura bisognerebbe parlare di panico. La facciata del Duomo: crollata. La Torre dei Modenesi, in piazza Baccarini: una montagna di macerie. Eppure, costruita nel 1213, aveva resistito dando ottima prova per 800 anni. Sfregiata anche la torre campanaria del municipio. Seriamente danneggiate le chiese di San Francesco, quella dell’Annunziata, quella di San Francesco da Paola. Mentre il mastio del castello estense ora è un enorme, indistinto, cumulo di pietre.
«Il terrore è quello di chi capisce che la propria vita e quella dei propri cari è in pericolo», sintetizza con il sorriso nella voce, nonostante tutto, Celso Malaguti, 65 anni, a capo della polizia locale della cittadina fino a due anni fa e oggi in pensione. «Ma più che di questo nel suo articolo parli dello smarrimento nel vedere il nostro paese, la nostra storia, ridotta in un cumulo di polvere — continua l’ex vigile —. Mai come ora capiamo quanto questi monumenti fossero un pezzo di noi, della nostra identità ».
Gli abitanti di Finale, come quelli di Sant’Agostino, di Mirandola o di San Felice non vogliono più raccontare per l’ennesima volta il terrore della notte del terremoto. Quello lo condividi con chi l’ha vissuto come te, nella speranza di liberarti di un incubo. Ma poi capisci che anche questo non serve a nulla. E allora meglio non ricordare più, tantomeno con chi non sa di cosa si sta parlando.
Certo è che gli abitanti della pianura sono arrivati del tutto impreparati a questo dramma. «La vostra non è terra sismica», hanno sempre detto tutti. E allora se c’era da costruire un capannone o una casa non si è mai guardato troppo per il sottile. Che errore. Lo hanno capito tutti bene sabato notte, quando il letto si è trasformato in una barca senza nocchiero nel mare in tempesta. «Fuori!!!! Fuori!!! Tutti fuooori». Urla, la gente per strada in mutande e maglietta, abbracciata per non sentire il freddo. I cellulari impazziti per capire che ne è dei propri cari in un altro paese, in un’altra città . Maschi e femmine che d’istinto resuscitano vecchie divisioni di ruoli: «Tu stai vicino ai bambini, io entro dentro a prendere una coperta». E poi, all’alba un innaturale arcobaleno che si staglia sul cielo quasi sereno.
«Laggiù, tra Gavello e San Martino Spino, la terra si è aperta e dalle sue ferite è uscito un misto di acqua e sabbia azzurra color del mare», racconta il vigile urbano in pensione. Leggenda, realtà , suggestione? Per ora la certezza è una sola. La gente della pianura ha perso l’innocenza di chi non ha mai visto la terra tremare.


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