Il fortino dell’orgoglio catalano “Il nostro sogno non è finito”

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Qualche giorno fa da Escribà , a Barceloneta, ho passato del tempo con Pasqual Maragall e sua moglie, sua figlia. à‰ stato un bel tempo. Barcellona è la città  dove sono cresciuta e dove quando posso vivo. Escribà  è un chiosco sul mare che ora manda avanti Joan, lo fa nel nome di suo padre che sessant’anni fa aveva un forno a Gracia e ai tempi della dittatura apriva la porta sul retro ogni volta che era necessario, per accogliere e nascondere ombre in fuga. Nei giorni di festa, raccontano i fratelli Perez de Rosas che all’epoca erano bambini, si entrava la notte a mangiare ciambelle gratis: ciambelle, dolci per tutti, una piccola pausa all’amarezza quotidiana. Un risarcimento in forma di frittella.
Il signor Escribà  era l’altra storia possibile, quella che per ora aveva perso ma vedremo, ne riparleremo, intanto resistiamo. Un forno, un fornaio. Maragall se lo ricorda, se così si può dire, e ride. Nessuno sa con esattezza che cosa Pasqual ricordi e cosa no. Nemmeno sua figlia, che non gli stacca gli occhi di dosso e lo scruta con amore e con ansia che dissimula parlando veloce. Pasqual ha l’Alzhaimer da tanti anni ormai. Quando lo ha annunciato ha detto: sono fortunato, mi conoscono tutti a Barcellona, troverò
sempre qualcuno che quando mi perdo mi riporti a casa. Fa ancora piangere a ripeterla, dieci anni dopo, una frase così. E’ stato — fra le tante altre cose — il sindaco delle olimpiadi perfette, Maragall. Fu il presidente del Cio Samaranch, catalano anche lui, ad aprire la busta quel giorno e a dire: Barselona. Con la esse, in catalano, in mondovisione. Le prossime olimpiadi “en Barselona”. Ora che comincia Londra è bello ricordarlo. Voi non potete sapere cosa successe quella notte. Che cosa significò quella sfumatura di pronuncia: una esse prolungata. Alle tre, alle quattro, alle cinque del mattino. Josè Carreras non aveva ancora avuto il cancro, Freddy Mercury non era ancora morto di Aids. Cantavano, bevevano, ridevano tutti e la città  era come di giorno. Bianca di notte.
«Monti è bravo, non si potrebbe far meglio di così. Certo non piacerà  a tutti. Ma è quello che serve », dice Maragall che in Italia ha vissuto e insegnato, all’università , parecchio. Beve un sorso, guarda l’orizzonte, riprende. «E’ un momento molto duro. Anche per noi. Molto duro. Il socialismo osserva un turno di riposo, putroppo».
Al governo della Catalogna c’è Convergencia i Unio, il partito di centro. Hanno vinto le elezioni gli uomini di Duran y Lleida, gli amici dell’italiano Cossiga. Democristiani, ma nemici del Ppe. Aznar e i suoi epigoni, il burocrate con le mezze maniche nere Rajoy, per esempio, sono i cascami del franchismo. Figli dei figli. CiU e il suo telegenico campione, Artur Mà s, invece, sono — o si sentono — più europei. Meno Cervantes, meno Castilla la Mancha, meno mulini a vento. «E però — sospira Maragall — non è bastato». Non è bastato che dopo quarant’anni di governo di Jordi Pujol, l’uomo dall’aspetto di un cinghiale che ha portato la Catalogna a un soffio dall’indipendenza, che è stato in origine il modello di Bossi (ma lui, Pujol, diceva Bossi? Non conosco), che è sembrato incarnare un’idea di federalismo europeo mai declinata prima: ecco, non è bastato che l’esangue Duran y Lleida lasciasse il posto a un ragazzo di partito più giovane e belloccio. Mas ha vinto le elezioni, sì. Ha sconfitto i socialisti che del resto avevano candidato un personaggio improbabile. Nessuno dopo Maragall (prima sindaco, poi presidente dell’autonomia catalana) era probabile.
Ha vinto il centro, che in Catalogna è come dire la destra: gli altri. Oggi Mas-Colell, ministro regionale dell’Economia, chiede indietro al Tesoro i soldi versati in tasse. Dal suo punto di vista il ragionamento non fa una piega: «Sono 25 anni che versiamo a Madrid tasse che non tornano indietro — l’ha detto tre giorni fa in un’intervista a questo giornale e lo ripete oggi — semplicemente chiediamo un meccanismo di reversibilità . Abbiamo dei debiti da pagare, c’è una legge che stabilisce che possiamo accedere a dei fondi dedicati, accediamo e onoriamo il nostro debito». Altri, senz’altro, oggi racconteranno del sogno catalano infranto con la prematura soddisfazione dei più fragili, più deboli. C’è qualcosa di osceno nella gioia con cui si annuncia la possibile vena di debolezza nel corpo dell’eroe. Come un sollievo di chi non è all’altezza. A Barcellona e nella regione intera non troverete nessuno che dica, oggi: è vero. Solo orgoglio, e alterigia. Quella che tutti ai catalani rimproverano. Ma non è un tema antropologico, è un tema politico. «Peccato che Felipe si sia ritirato così presto», dice Maragall. Peccato per Gonzalez, che oggi a Madrid i socialisti vecchio stile — Rubalcaba era dei suoi — rimpiangono. Ha criticato Zapatero, di recente. Felice può farlo.
Molti anni fa, quando a Barcellona il catalano non si poteva parlare a scuola perché c’era Franco e noi bambini lo imparavamo a casa con la raccomandazione di non dire una parola fuori, Maragall era un ragazzino. Vasquez Montalban il leader della cellula comunista dell’università . Tutto doveva ancora succedere. Il Sindaco guarda il mare, il suo mare celeste fino all’orizzonte. «La strada è giusta, questo è un guasto di tappa». E’ l’ora dei sacrifici. E’ l’ora di chiedere indietro a Madrid qualcosa di quello che si è dato. E’ l’ora dei centristi, vabbè. Magari il socialismo tornerà . Riempitevi la bocca di critiche e di begli editoriali letterari e storici, oggi. Dite pure: è finito il sogno catalano, riempite così i vostri giornali. «Noi aspettiamo, non abbiamo fretta, lavoriamo, facciamo quel che è giusto», ride il vecchio sindaco, il vecchio presidente. Aspettate a decretare il ko ed alzare il braccio all’avversario. Molti non aspettano altro, è sicuro, ma la Catalogna è terra di sorprese — direbbe Mercè Rodoreda nascosta nella sua soffitta, in Placa del Diamant.


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